Diari di Cineclub

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domenica 6 marzo 2011

"UNA VITA DIFFICILE" di Alessandro Agostinelli








"UNA VITA DIFFICILE"

PER NOI ITALIANI



di Alessandro Agostinelli









I soldi e la felicità. È il film migliore di Dino Risi e l’interpretazione più eccelsa di Alberto Sordi, qui giornalista ex partigiano. Si anticipano tutte le malattie croniche dell’Italia, che di lì a poco saranno messe in discussione dalle proteste sociali e giovanili della fine degli anni Sessanta.



 Ci sono film molto più artistici e film molto più impegnati di questo lungometraggio del 1961. E film che potrebbero aspirare a raccontare episodi del Risorgimento, o vicende delle due guerre mondiali o del periodo del ventennio fascista. Come del resto La dolce vita di Federico Fellini ha rappresentato per molti, anche all’estero, l’affresco italiano per eccellenza, pur essendo raccontata dal punto di vista autoriale di una riflessione intimamente soggettiva.
Tuttavia crediamo che Una vita difficile sia l’affresco più calzante di tutta la storia nazionale. C’è dentro certamente la trasformazione dell’italiano medio che da giovane ribelle e sognatore deve adeguarsi ai compromessi della vita, e c’è dentro il racconto di una dignità individuale che fa a pugni con un regime sociale egoista e rapace.

«Panoramica su venti anni di vita italiana attraverso le vicende di un ex partigiano giornalista che si inserisce nel sistema di una borghesia reazionaria», come lo spiega sinteticamente il Morandini.

È il film migliore di Dino Risi e l’interpretazione più eccelsa di Alberto Sordi che a fine carriera ricordava appunto Silvio Magnozzi, protagonista di Una vita difficile, come il suo personaggio più riuscito. Qui Sordi riesce a contemperare la comicità con una interpretazione misurata, e anche le scene più sopra le righe rientrano sempre nell’alveo della credibilità, non lasciando alcuno spazio alla macchietta o alla descrizione bozzettistica. Oggi, e vagliando a ritroso molti film nella storia della commedia all’italiana, questa pellicola si può ritenere forse il punto più alto raggiunto dal cinema di quel genere.
Ma accanto ad Alberto Sordi, nella parte azzeccatissima dell’interprete principale, ruotano anche altri personaggi del cinema del periodo, come Vittorio Gassman, Alessandro Blasetti, Silvana Mangano che interpretano se stessi, in una scena in cui Dino Risi mostra un set cinematografico. Da ricordare anche che il soggetto e la sceneggiatura di questo incomparabile film sono di Rodolfo Sonego, poi collaboratore in molte altre pellicole di Alberto Sordi.
Il film parla di un pezzo di storia italiana, dalla Resistenza al boom economico, attraverso la vita di un partigiano, poi giornalista appassionato del giornale di sinistra Il Lavoratore, che si sposa con la borghese Elena Pavinato (interpretata da una bravissima Lea Massari) e viene a contatto con parti di società nazionale corrotte, spinte avanti soltanto dall’arrivismo e dall’avidità di denaro. Anche il protagonista, prima puro e idealista, deve fare i conti con la realtà e cerca di barcamenarsi in un mondo ossequioso col potere politico ed ecclesiastico, cercando di non essere comunque contaminato dalle viltà che gli stanno intorno. Ma questo passaggio dalla purezza della gioventù alla corruzione della maturità non riesce a deviarlo da un senso intimo di giustizia, non ce la fa a distoglierlo dai suoi valori e, scontrandosi con un’Italia che annusa le prime febbri del degrado morale, si arrende al suo destino di perdente.
In questo film non c’è nessuna celebrazione del boom economico, si intravvede un futuro non certo ottimistico per le condizioni morali della società nazionale, e tutto l’entusiasmo del dopoguerra si incupisce in un paese a due velocità, dove ricchi e poveri, umili e potenti saranno destinati sempre più a distaccarsi tra loro. Si anticipano, quindi, tutte le malattie croniche dell’Italia, che di lì a poco saranno messe in discussione dalle proteste sociali e giovanili della fine degli anni Sessanta del Novecento.
Nonostante la pellicola metta in scena tutto questo, non ha scopi o messaggi sociologici. Si tratta di un film godibilissimo, facile da seguire e assolutamente coinvolgente sia per la maestria di Sordi, sia per le vicende che vengono raccontate, sempre credibili ed efficaci, quando mettono in scena l’entusiasmo delle speranze sociali e di quelle familiari, ma anche quando pongono in risalto la melma dell’ipocrisia e dello spregio dei valori che dovrebbero tenere salda insieme una società solidale.
Alberto Sordi si ritrova due volte fuori da un night, e nella prima di queste, cammina un po’ brillo incontrando un pastore con le sue pecore e gli chiede: «Pastore, tu sei felice?», e il pastore la cui vita non sembra metterlo proprio di fronte a questa priorità esistenziale, gli risponde: «A ’mbriaco, ma va’ a morì ammazzato». Anche in questa scena si evidenzia un tema importante per la borghesia dell’epoca, cioè una domanda che un individuo cosciente come Silvio Magnozzi si pone: può la ricchezza dare la felicità? Oppure servono soprattutto altri parametri di vita per definire uno spazio condiviso di felicità?



Il film ci chiama di fronte allo stato del nostro paese e ci pone davanti alcune domande non banali che ci raccontano in quasi tre ore di cinema la storia intellettuale-emotiva più pertinente a ciò che possiamo pensare sia stata la vita delle generazioni precedenti.
Memorabile la scena della cena a casa dei monarchici nella sera dell’esito del referendum tra monarchia e repubblica, ma ancora migliore la scena finale, quando Alberto Sordi, ormai solo e perduto, uscendo da un locale, si avventura ubriaco, all’alba, in mezzo alla strada, sul lungomare della Versilia, sputando alle macchine e a un pullman di turisti tedeschi ai quali grida che è inutile che vengano in Italia, perché l’Italia fa schifo. Geniale epilogo di un film che ha anticipato in racconto tutto il peggio del nostro malcostume italico.

Una vita difficile, oltre a descrivere le ipocrisie borghesi degli anni fondanti dell’Italia contemporanea, sembra raccontarci anche come certi piccoli poteri economici, politici e lobbystici non abbiano mai cambiato faccia e siano passati indenni dal fascismo all’Italia repubblicana, senza acquistare nessun tipo di valore sociale. L’arrivismo e il benessere, sembra dirci Risi, ha il suo caro prezzo da pagare, a scapito della morale e della dignità privata

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