Diari di Cineclub

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venerdì 18 marzo 2011


SULL’ANNIVERSARIO DELLA COSIDDETTA UNITÀ D’ITALIA COME FORMA DI FETICISMO STORICO.



                                 di Michele Nobile



Le autocelebrazioni ufficiali sono sempre mistificanti perché volte a far apparire «vissute» e «popolari» istituzioni che della vita sociale sono pietrificazioni, concrezioni di apparati burocratici che ad essa si sovrappongono nel tentativo di dominarne e governarne le contraddizioni.
Massimamente mistificante sarà dunque l’autocelebrazione dell’apparato degli apparati, cioè dello Stato: qui la mistificazione coincide con la rappresentazione della forma-Stato come un feticcio che assorbe e congela il vissuto storico reale, che lo restituisce in una forma da cui le contraddizioni sono espunte o neutralizzate.
L’autocelebrazione dell’unità d’Italia che ha luogo in questi giorni è mistificante nella sua stessa concezione e denominazione.
Quel che accadde il 17 marzo 1861 non fu affatto il compimento dell’unificazione italiana ma la promulgazione della legge che faceva di Vittorio Emanuele il re d’Italia (legge , approvata il 26 febbraio dal Senato e il 14 marzo dalla Camera). Si tratta della nascita del Regno d’Italia, costituito in seguito ai plebisciti ed alle annessioni che, nell’arco dei diciotto mesi precedenti, avevano progressivamente esteso il regno di casa Savoia fino a comprendere la Lombardia, l’Italia centrale tranne il Lazio, il Mezzogiorno.
Ma, senza trascurare quel che di artificiale o di convenzionale o di mitico si annida nella definizione di un’entità nazionale, al compimento dell’unità d’Italia mancavano ancora il Veneto e, specialmente, il Lazio e Roma. Nessun autentico patriota, né tra i monarchici e liberali e men che mai i democratici italiani (ed europei), considerava compiuta l’unificazione nazionale senza Roma. Neanche il liberale Cavour o il primo dei grandi «trasformisti» italiani, Urbano Rattazzi: la «questione romana» nel 1861 restava ben aperta. Tanto aperta che Garibaldi tentò, dopo la proclamazione dell’«unità», due operazioni per la liberazione di Roma.

La prima nell’agosto 1862, quando venne fermato e ferito dai soldati del neonato Regno d’Italia sull’Aspromonte: quella fu una guerra civile in miniatura, che non ebbe più gravi esiti solo perché il Generale impose alle sue truppe, in inferiorità numerica ma ben attestate, di cessare il fuoco.

Il secondo tentativo fu nell’ottobre 1867, quando Garibaldi invase il Lazio con circa 7 mila volontari, ma dovette ripiegare a causa del fallimento dell’insurrezione romana, per essere poi sconfitto dai franco-papalini a Mentana e, varcato il confine, essere nuovamente arrestato dai soldati dello Stato regio e «unitario». Tra i tanti che caddero a Roma si ricordano i fratelli Enrico e Giovanni Cairoli, Francesco Arquati, la sua eccezionale moglie Giuditta Tavani, patriota figlia di un combattente della repubblica romana del 1848, e il loro figlio dodicenne Francesco, uccisi nell’assalto papalino in un lanificio in cui si erano asserragliati. Si devono ricordare anche Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, che avevano fatto saltare in aria una caserma pontificia: questi furono cattolicamente ghigliottinati l’anno seguente.

Infine, la questione romana si concluse quando, approfittando della caduta di Napoleone III ad opera delle truppe tedesche e della Comune parigina, le truppe del Regno d’Italia invasero quel che restava dei domini del Papa-re e irruppero in Roma attraverso la celebre breccia di Porta Pia, il 20 settembre 1870. Il tiranno pontificio oppose debole resistenza militare, giusto per dimostrare agli italiani ed al mondo che egli non cedeva pacificamente e cristianamente il suo dominio temporale. Nondimeno, cannonate e fucilate ci furono, con morti (68 complessivi) e feriti.
Di una cosa bisogna prendere atto: che i liberali del 1870, per quanto monarchici e moderati, osarono un’azione di tale portata il cui equivalente sul piano ideale e della normativa è, per i nostri politicanti «laici» contemporanei, così pronti alla genuflessione e al baciamano, pura fantastoria.
Dunque, il compimento dell’unificazione italiana si diede nel 1870 e, neanche troppo figurativamente, «sparando sul Papa-re». Questi a sua volta, pur detronizzato, confermò arrogantemente il divieto ai cattolici di partecipare alla vita politica del nuovo Stato, divieto che rimase formalmente in vigore per un altro mezzo secolo.



Pare un paradosso che la Repubblica festeggi la proclamazione del Regno.
Ma forse non è tale.
Quel che le istituzioni e lo spettacolo mediatico festeggiano realmente è la continuità della forma-Stato. Perché, attraverso il Regno, poi il fascismo, infine la Repubblica, esiste una continuità reale, che è appunto, quella del dominio dello Stato e delle classi dominanti sulle classi dominate italiane. È il feticcio dello Stato che viene celebrato e, con esso, la continuità del potere di classe attraverso le diverse trasformazioni della forma del regime politico.
Nel festeggiamento feticistico risuona l’invocazione ai «valori condivisi» che, finalmente, facciano dell’Italia un paese «normale». Si tratta del tentativo, espresso come aspirazione normativa, di neutralizzazione delle contraddizioni che fin dall’inizio contraddistinsero il processo di unificazione politica.
Ricordare il 1870 e la caduta della tirannia papale certamente non faciliterebbe il distillare di questi «valori condivisi»: non fosse altro perché allora coerenza vorrebbe che si ponesse fine a tutti i privilegi materiali e anche «ideali» che la Chiesa seppe mantenere e accrescere, dalle guarentigie del Regno al Concordato col fascismo, fino alla Costituzione repubblicana.
La proclamazione del 17 marzo 1861 fu risultato e sanzione dell’inesistenza di una rivoluzione popolare, giacobina e democratico-borghese, in Italia. In effetti l’epoca delle «rivoluzioni borghesi» era già tramontata da un pezzo e in Italia il rischio forte era che una coerente linea «giacobina» venisse scavalcata da un moto «sanculotto» ancor più radicale. Questo fu uno degli argomenti forti della politica estera cavouriana, volta a guadagnarsi il sostegno della Francia e la benevola neutralità dell’Inghilterra, operazione complementare a quella della cooptazione di buona parte del Partito d’azione nella prospettiva dell’unità come allargamento dello Stato dei Savoia.
Fatto è che la proclamazione del Regno può essere assunta non come evento che richiede l’elaborazione di presunti «valori condivisi» all’insegna dell’italianità ma, al contrario, come momento cruciale di un processo, precedente e seguente il 1861, da cui sono sorti problemi irriducibili, difficili da relegare nel pozzo nero della smemoratezza per il semplice fatto che essi sono ancora presenti e vivi sotto i nostri occhi, a contraddistinguere le peculiarità della storia e delle trasformazioni dell’Italia, regia, fascista, repubblicana, e sempre borghese, e che necessariamente devono dividere. Anzi, il fatto è che su questi politicamente non ci si divide abbastanza. Si può solo tentare di neutralizzarli astraendo una data dal contesto reale.
Indico solo due questioni macroscopiche, la cui genesi si radica nei modi del processo di unificazione e nella gestione dello Stato dal Regno in avanti.

La prima è la «questione meridionale». Quello italiano è l’unico tra gli Stati europei a presentare una spaccatura socioeconomica in due parti, non in singole aree, del territorio (l’articolazione in più «Italie» non altera sostanzialmente il dato di fondo). Il confronto più pertinente si potrebbe forse fare con il Regno Unito quando esso comprendeva anche tutta l’Irlanda. Ma l’Irlanda era a tutti gli effetti un’altra nazione, che oppose una fiera resistenza.
Il caso del Mezzogiorno italiano fu diverso. Lì il popolo non difese affatto il Regno borbonico e anzi, fece del suo meglio per abbatterlo, in concomitanza con lo sbarco e le operazioni di Garibaldi. Il punto è che quel moto popolare, urbano e rurale, venne contenuto e soffocato perché una rivoluzione «giacobina» e «sanculotta» era ovviamente incompatibile con l’unione al Regno di Sardegna. Quella fu la base politica per la formazione di un nesso strutturale e funzionale tra la modernizzazione, concentrata in alcune aree del Nord, e la relativa conservazione dei rapporti sociali dati nel Mezzogiorno, a cui lo stato d’assedio e la connivenza di «cappelli» e «galantuomini» con la mafia e della camorra, antiche e nuove, non sono estranee. Con un prestito dalla teoria della dipendenza, lo Stato e il capitalismo italiani si nutrono tuttora di una dialettica tra sviluppo e (relativo) sottosviluppo, da non intendersi come immobilità o assenza di qualsiasi sviluppo capitalistico.
Il contrasto così fortemente territorializzato tra modernizzazione capitalistica e ineguaglianza dei ritmi e dei modi è una delle ragioni del perenne discorrere sulle «tare» italiane, sull’insufficiente modernizzazione, sul peso della rendita (oggi meno, a dire il vero), sul «parassitismo pubblico», illegalismo, familismo e via elencando fino al cosiddetto «populismo» berlusconiano. Una discussione infinita e inconcludente perché quel che non si riesce a digerire è che è esattamente questa la forma d’esistenza dello Stato italiano, a partire dal 1861, e il modo in cui si è realizzata e si realizza in Italia la modernizzazione capitalistica. Che da nessuna parte, e meno che mai a livello mondiale, è qualcosa di lineare e omogeneizzante: la riproduzione dei differenziali di sviluppo (capitalistico) e delle differenze di regime politico (qui parlamentarismo liberale, lì dittatura militare, altrove la «democradura») è la forma e la sostanza della modernizzazione capitalistica.

La seconda questione è quella del trasformismo e del gattopardismo politico. Neanche questa è esclusività dell’Italia, ma nella sua storia ha un peso eccezionale, tanto da giustificare l’uso internazionale dei termini italiani. Anche in questo caso si può ben risalire alle vicende risorgimentali, dal connubio tra Cavour e il centrosinistra di Urbano Rattazzi, alla Società nazionale e al motto «Italia e Vittorio Emanuele» fatto proprio anche da tanta parte della Sinistra storica. Il trasformismo, parente del consociativismo, è uno dei modi attraverso i quali in Italia si riesce a impedire, quando l’esclusione a priori non riesce a reggere più, la persistenza di un’opposizione politica che sia degna di questo nome, idealmente e programmaticamente qualificata.
Ebbene, questo centocinquantesimo anniversario della proclamazione del regno d’Italia cade nella fase in cui trasformismo e gattopardismo italici hanno raggiunto livelli ineguagliati di diffusione e di cinismo morale e politico. Le pretese patriottarde di questo anniversario regio-repubblicano ne sono un esempio.

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