L'ESSENZIALE SULL'ESSENZIALE
di Gilles Dauvé & Karl Nesic
Nell'autunno del 2009 uno degli attuali partecipanti a «Il Lato Cattivo» inviò un questionario a Gilles Dauvé e Karl Nesic, redattori della rivista «Troploin»; le relative risposte andarono a costituire la Lettre de Troploin n.10 (novembre 2009).
Ne pubblichiamo qui la traduzione italiana, che può essere letta sia come un testo autonomo, sia come un complemento al più lungo "La Ligne Générale" (Lettre de Troploin, n. 8, aprile 2007), anch'esso frutto delle risposte a un questionario che Dauvé e Nesic avevano ricevuto dalla rivista tedesca «Revolution Times». [ndr]
[1] Ha ancora senso, nella nostra epoca, credere ragionevolmente non diciamo alla necessità, ma alla possibilità di una rivoluzione sociale, e agire di conseguenza? Quali sono le condizioni di possibilità di una tale rivoluzione?
Oltre un secolo e mezzo dopo la pubblicazione del Manifesto del partito comunista, la rivoluzione si fa ancora attendere. La questione che sollevate è quindi non solo legittima, ma necessaria. Tutto dipende dal modo in cui la si pone... o la si aggira.
Alcuni dei nostri compagni hanno creduto nella rivoluzione, cercato di contribuire alla sua venuta, e poi smesso di credervi allorché non l'hanno veduta arrivare. Evidentemente, per loro, la rivoluzione aveva consistenza reale o possibilità di realizzarsi, soltanto nella misura in cui fosse sopraggiunta nel corso della loro vita, o diciamo piuttosto della loro giovinezza.
Altri conservano una prospettiva rivoluzionaria soltanto mantenendosi “sotto pressione”, come se la combinazione di un capitalismo sempre più insostenibile e di lotte sempre più profonde, conducesse inevitabilmente al sovvertimento dell'esistente. Non possiamo nulla per i delusi, gli stanchi, gli impazienti e gli irritati dalla storia...
A nostro modo di vedere, la natura della società non è cambiata dopo il 1848, anzi si è perfino consolidata e approfondita. Le condizioni di una crisi rivoluzionaria sono sempre presenti, e dunque anche la possibilità della rivoluzione comunista. Il fatto che essa non si sia finora realizzata, non significa che non si realizzerà in futuro. Simmetricamente, la persistenza di lotte sociali e di minoranze comuniste non prova assolutamente nulla, se non che la società è contraddittoria. Ma questa è una banalità.
La vostra domanda è ben posta: possibilità, non necessità (nel senso che l'affermazione del comunismo sarebbe – perfino da sempre – inscritta nella storia). La rivoluzione è determinata da un insieme di circostanze favorevoli, ma queste rappresentano soltanto un'occasione da cogliere. Perché questo accada, è necessaria una volontà collettiva che vada oltre le contingenze dell'esplosione sociale. Non è possibile trovare una causa ultima che spieghi la ragione per cui, nel 1919, centinaia di migliaia di operai berlinesi non si siano uniti all'insurrezione spartachista. L'unica spiegazione è che essi non ne sentivano socialmente il bisogno. La volontà non è tutto, ma senza la volontà non si ha niente.
Non vi sono condizioni oggettive che, da sole, possano determinare questo salto (poiché si tratta certamente di un salto nell'ignoto). La crisi e la miseria, ad esempio, posso provocare le reazioni più disparate. La crisi del '29 ha portato il nazismo al potere, rafforzato lo stalinismo, promosso i Fronti Popolari e il New Deal keynesiano, ed infine è sfociata nella Seconda guerra mondiale.
[2] In che cosa consiste la trasformazione comunista dell'esistente o, se volete, il “contenuto” del comunismo? Come concepite il processo rivoluzionario che dovrebbe condurvi?
Ripetiamo che cosa intendiamo per comunizzazione, poiché se l'idea è semplice, la semplicità è cosa difficile da afferrare.
Confrontiamo questa nozione con quanto prospettava Marx nel 1875, nella sua Critica del programma di Gotha. Il suo sistema di buoni-lavoro (spesso ripreso in seguito, anche da noi) (1) corrisponde all'idea di una «fase di transizione», uno stadio dell'evoluzione storica non più capitalista e tuttavia non ancora comunista, durante la quale il lavoro verrebbe esteso all'intera popolazione allo scopo di sviluppare l'economia; non più però per il profitto e per il padrone, ma a vantaggio dei lavoratori stessi, affinché le “forze produttive” sgorghino in abbondanza e producano beni di consumo in quantità sufficiente a soddisfare i bisogni di tutti. Dunque, si lavorerebbe ancora, il lavoro persisterebbe in quanto attività separata dal resto della vita, ma con una triplice differenza: 1) gli operai gestirebbero le fabbriche e l'intera economia; 2) nessun capitalista ne trarrebbe vantaggio; e 3) il tempo di lavoro verrebbe drasticamente ridotto. In tal modo, la classe operaia porterebbe autonomamente a compimento l'industrializzazione.
Se è lecito dubitare della pertinenza di un tale programma nel 1875, riprenderlo nel 1972 fu senz'altro un errore. Questo non è il progetto di una rivoluzione comunista: non lo fu in passato, e ancor meno lo è oggi. L'industria, così come la conosciamo e subiamo, non deve essere sviluppata sistematicamente. Non lo affermiamo sotto l'influenza della moda o della corrente anti-industriale che si è sviluppata negli ambienti radicali. Come diceva uno di noi già intorno alla metà degli anni Settanta, occorrerebbe chiudere la metà delle fabbriche. (Torneremo sull'argomento nella risposta n.10).
Credere, come Cardan/Castoriadis (Socialisme ou Barbarie, n.35, 1964), che «una società rivoluzionaria non potrebbe sopravvivere e svilupparsi, senza instaurare immediatamente un'assoluta eguaglianza dei salari», significa optare per un sistema salariale democratizzato ed egualitario, e di conseguenza non uscire dal quadro del capitalismo. Kropotkin, nel 1892, vedeva più lontano, quando rifiutava «ogni idea di salariato, sia esso retribuito in denaro o in buoni-lavoro, sotto qualunque forma si presenti».
La trasformazione comunista può realizzarsi soltanto se viene attuata fin dagli esordi della rivoluzione. La trasformazione e il processo sono una sola e identica cosa. Ci sia consentito citare un passo dal nostro Au-delà de la démocratie (2):
«La nostra emancipazione sarà il prodotto di una rivoluzione che trasformerà ogni aspetto della vita quotidiana ,attaccando allo stesso tempo il potere politico e creando i suoi propri organismi, attraverso un'insurrezione che combini azione distruttrice e creativa, distruzione degli apparati repressivi e creazione di rapporti sociali non mercantili, e che vada verso l'irreversibile, togliendo agli esseri e alle cose la loro qualità di merce, scalzando il potere borghese e statuale, trasformando le strutture materiali e mentali.
«La possibilità di far circolare prodotti e materie prime senza la mediazione del denaro, passa anche per la demolizione dei muri degli appartamenti, la cui miseria riflette l'adattamento alle norme della famiglia nucleare; o per la coltivazione di legumi per strada o sopra un tetto. Significa superare la scissione tra un universo urbano mineralizzato e una natura sempre più ridotta a uno spettacolo e a uno svago, là dove un trekking di dieci giorni nel deserto una volta all'anno, compensa l'obbligo di andare a fare acquisti in auto ogni giovedì. Significa praticare all'interno di un rapporto sociale, ciò che prima dipendeva da un'attività privata e retribuita, o addirittura volontaria (poiché là dove tutto si paga, nulla può essere gratuito). Significa non trattare più il proprio vicino come uno straniero, ma anche smettere di considerare l'albero all'angolo della strada come una scenografia di cui gli operai del Comune si prendono cura.
Significa produrre una relazione di tipo differente con gli altri e con se stessi, in cui la fratellanza non deriva da un principio, ma da una pratica che include la lotta, talvolta violenta e persino armata.»
Quest'ultimo punto è essenziale. Non solo la comunizzazione non sostituisce la distruzione delle forze politiche borghesi, ma facilita la loro distruzione, che altrimenti si ridurrebbe a uno scontro militare.
La rivoluzione comunista non è una successione, che si occupa prima del potere (per conquistarlo o sopprimerlo) e soltanto in seguito si applica a trasformare la vita sociale.
Ciascuno di questi due aspetti nutre l'altro.
Essi o agiscono simultaneamente, o sono destinati a fallire entrambi. Se i proletari non si sbarazzano della polizia, dell'esercito, dei partiti e del meccanismo parlamentare, presto o tardi le trasformazioni sociali deperiranno, erose dall'interno, o saranno interrotte dall'esterno, come accadde in Spagna dopo il 1936. Ma se la lotta armata si riduce a uno scontro tra due fronti, inevitabilmente il campo proletario finirà per perdere la sua dinamica sociale interna, per poi essere sconfitto sulle barricate o sui campi di battaglia, come di nuovo dimostra l'esperienza spagnola dopo il 1936. (3)
Un tale sconvolgimento non si realizzerà evidentemente nel giro di poche settimane o mesi, e si estenderà almeno sull'arco di una generazione; ma il processo di comunizzazione comincerà da subito.
Prima esso si innescherà, prima si amplierà e approfondirà, e maggiori possibilità avrà di imporsi.
Sappiamo bene che cosa non vogliamo: lo Stato, il lavoro, le classi, la proprietà privata... Ma ciò che ne faremo determinerà relazioni sociali nuove, di cui è difficile oggi immaginare il contenuto.
Ad esempio, se l'automobile individuale è un mezzo eccezionalmente adatto alla civiltà moderna, la sua sorte non sarà stabilita a partire dalla necessità di risparmiare energia, o di spostarsi collettivamente perché sarebbe più conviviale. Più esattamente, questi due imperativi non saranno determinanti: il punto è che saranno il bisogno e la nozione stessi di spostamento a cambiare. Non vogliamo stigmatizzare l'automobile per esaltare il TGV (4): lasciamo la questione del “miglioramento dei mezzi di trasporto” agli amministratori e agli esperti della società attuale. Il TGV è fatto per correre veloce. Ma velocità o lentezza non sono fini in sé , e il privilegiare l'una o l'altra discende da un modo di vita.Vogliamo un mondo capace di prendere in considerazione il desiderio e la possibilità di andare da Lille a Marsiglia in tre settimane. Tuttavia, sarebbe assurdo fare qui e ora dei piani per l'avvenire e supporre, ad esempio, che sia preferibile spostarsi prevalentemente a cavallo o in bicicletta. Sappiamo che l'ossessione per la velocità è intimamente connessa al capitalismo. Questo non significa che il gusto per la velocità scomparirà. Non sappiamo che cosa la velocità possa diventare; ad ogni modo, una rivoluzione che non trasformasse questo bisogno in piacere, possederebbe ben poca attrattiva.
(3) In che cosa la vostra concezione della rivoluzione, della distruzione del capitale, delle classi e dello Stato (la comunizzazione) si distingue dalla concezione anarchica?
Il conflitto tra marxismo e anarchismo ha dato luogo a troppa confusione, a troppe ingiurie e calunnie.
La stessa Rosa Luxemburg, nel 1906, scriveva dell'anarchismo russo:
«È diventato un insegna per volgari ladri e saccheggiatori; è sotto la ragione sociale dell'“anarco-comunismo” che è stata commessa una gran parte di quegli innumerevoli furti e atti di brigantaggio a danno di privati cittadini, che imperversano in ogni periodo di depressione, di riflusso momentaneo della rivoluzione. L'anarchismo, nel quadro della rivoluzione russa, non è la teoria del proletariato militante, ma l'insegna ideologica del sottoproletariato controrivoluzionario che brulica come un branco di squali dietro la nave di battaglia della rivoluzione. E con questo è ben concluso il corso storico dell'anarchismo» (Sciopero generale, partito e sindacato).
Per attenerci qui alla comunizzazione – e diffidando delle parole, poiché esistono tante varietà di anarchici quante ve ne sono di marxisti (e com'è noto Marx rifiutava l'etichetta di “marxista”) – possiamo dire che, al contrario della maggior parte dei marxisti, molti anarchici hanno affermato il contenuto concreto del comunismo, e talvolta hanno cercato di metterlo in pratica fin da subito:
superamento della famiglia, scuola capace di stimolare lo spirito dell'allievo, messa in comune delle risorse, alimentazione differente, tentativo di vivere al di fuori del sistema salariale, solidarietà immediata etc. Sebbene questi sforzi siano talvolta sfociati nel settarismo, nello spiritualismo o nella “ricetta”, vi ritroviamo una concezione della rivoluzione come pratica di relazioni sociali liberate dallo Stato e dal lavoro salariato, e come auto-produzione di un individuo immediatamente sociale. Questa prospettiva è molto vicina a quella che noi chiamiamo comunizzazione.
Il merito storico dell'anarchismo è stato quello di essere il nemico implacabile dello Stato e del parlamentarismo; esso ha dimostrato (contro la maggioranza dei militanti e dei pensatori del movimento operaio e socialista) che queste istituzioni non erano affatto strumenti al servizio dell'emancipazione del proletariato, bensì catene.
Tuttavia, a causa del loro rifiuto di elaborare una critica della politica, e dunque della democrazia, i libertari hanno trovato altrettanta difficoltà a comprendere la dinamica rivoluzionaria che gli “autoritari” da essi stigmatizzati.
Res Publica ha recentemente ripubblicato L’Etat et la Révolution di Arthur Arnould (1833-95), apparso nel 1877, quarant'anni prima dell'omonima opera di Lenin. Questo vecchio comunardo trae dall'esperienza del 1871 la stessa lezione ricavatane da Marx: occorre distruggere la macchina dello Stato (5); con la differenza che Arnould si oppone a qualsivoglia sistema parlamentare, anche se sorto dalla rivoluzione: «Nessuno può rappresentare il popolo», se non il popolo stesso. L'anno seguente Arnould scrisse: «Nessuna centralizzazione! Nessun potere forte! L'Autonomia del Gruppo e l'Unione dei Gruppi autonomi (...)».
Ma decentramento e autogestione sono soltanto forme, che in se stesse non bastano a produrre il proprio contenuto. Rappresentare se stessi, va bene, ma in che cosa consiste questo sé? Il vero problema è che cosa i proletari devono fare per rimanere autonomi.
In fin dei conti, l'anarchismo prende la democrazia in parola: per farla funzionare davvero, anziché concentrare le procedure e gli organismi democratici, li spezzetta e li moltiplica.
In questa prospettiva, laddove un parlamento centralizzato diventerebbe inevitabilmente fonte di oppressione, alcuni milioni di micro-parlamenti locali – presenti a livello del palazzo, del quartiere, della scuola, del luogo di produzione, dell'associazione etc. – si presume non sfuggirebbero al controllo di coloro li animano. Volendo supporre che una simile prospettiva si realizzi, il gruppo di quartiere, la comune o il consiglio scolastico, una volta costituiti, potrebbero amplificare la propria autonomia locale in autonomia collettiva, soltanto nella misura in cui la loro pratica rimanesse sotto il loro proprio controllo. L'organizzazione della società (e le istituzioni, per quanto minimali e flessibili, che la esprimono) dipende dai rapporti sociali, dal modo di produrre il cibo e gli oggetti di uso quotidiano, dal modo di mangiare, dormire, abitare, spostarsi, vivere in comune, incontrarsi, viaggiare etc. Non si elimina lo Stato spezzettandolo in frammenti tanto piccoli da risultare inoffensivi. Elisée Reclus, per quanto lontano dal nostro punto di vista, osservava nel 1880: «Fino a oggi, le comuni non sono state che dei piccoli Stati (...)». L'unica soluzione consisterà nell'inventare nuovi modi di vivere e di essere insieme che impediscano alle mediazioni – inevitabili – di ergersi sopra di noi come potenze estranee. (Non svilupperemo qui quanto esposto in Au-delà de la démocratie e Contribution à la critique de l’autonomie politique). (6)
Concludiamo citando Debord:
«Il fatto di vedere il fine della rivoluzione proletaria come immediatamente presente costituisce contemporaneamente la grandezza e la debolezza della lotta anarchica reale […]. Del pensiero storico della lotta di classe moderna,l’anarchismo collettivista trattiene unicamente la conclusione, e la sua esigenza assoluta di questa conclusione si traduce egualmente nel disprezzo deliberato del metodo. […] È l'ideologia della pura libertà.» (La società dello spettacolo, Tesi 92).
[4] All'interno di una prospettiva rivoluzionaria, le nozioni di proletariato, lotta di classe e contraddizione capitale/lavoro, mantengono ancora a vostro avviso una qualche pregnanza?
Nel XVI secolo, all'epoca della Guerra dei Contadini, o nel XVII, al tempo dei Levellers e dei Diggers, allorché la stragrande maggioranza della popolazione mondiale era composta da contadini, ogni teoria sociale degna di questo nome partiva necessariamente dal rapporto tra coloro che lavoravano la terra e coloro che organizzavano e sfruttavano questo lavoro. Al di là dell'infinita varietà di tipi di espropriazione e spossessamento, di controllo o di proprietà del suolo, l'opposizione tra i lavoratori della terra e i loro padroni strutturava il mondo, e nessuna prospettiva di cambiamento sociale radicale (o anche soltanto di riforma) poteva eluderla.
A distanza di alcuni secoli, per quanto i salariati non rappresentino la maggioranza dell'umanità (in ogni caso non i salariati ufficialmente occupati), il rapporto capitale/lavoro domina il pianeta e la sua evoluzione. All'inizio del XXI secolo, una riflessione, e a maggior ragione una critica sociale non può che assumere come punto di partenza il fatto che il capitalismo (e non ad esempio l'ipertrofia tecnica, il dominio, l'autorità, la relazione uomo/donna, o anche il denaro in quanto potenza autonomizzata) struttura il mondo. Né più, né meno. Altro sarebbe ricondurre ogni cosa al rapporto capitale/lavoro, che non basta a spiegare né perché in Congo imperversa la guerra, né perché in Italia la Lega Nord ha tanto successo.
Chi dice rapporto capitale/lavoro, dice contraddizione tra i due termini del rapporto, e quindi lotta.
Periodicamente incrociamo persone che colgono unicamente dei concetti reificati, laddove noi vediamo delle realtà, senza le quali non è pensabile alcun progetto rivoluzionario. Ancora una volta, occorre intendersi sul significato delle parole e di queste realtà. Come abbiamo spiegato già in diverse occasioni, ad esempio all'inizio de L'Appel du vide (2003) (7), “lotta” tra capitale e lavoro salariato non implica che queste due realtà si affrontino senza tregua, in forma larvata o violenta, all'interno dell'impresa o nelle strade, ma soltanto che esse sono legate da un rapporto di collaborazione obbligata e allo stesso tempo di inimicizia. Raramente due lottatori si combattono fino alla morte. Lottare, il più delle volte, significa essere forzati ad accettare il quadro all'interno del quale la lotta si svolge. Se il capitale ha bisogno del lavoro salariato, finché sussiste questo sistema, anche il lavoro ha bisogno del capitale.
Quelli che nel milieu radicale negano l'esistenza delle classi e della loro lotta, o ne minimizzano l'importanza, sono in grado di capire la storia ancor meno dei borghesi che all'inizio del XIX secolo hanno messo in evidenza questo antagonismo. Il problema, per i rivoluzionari, non è sapere se la lotta di classe esiste, ma chiedersi come, anziché auto-riprodursi, essa possa concludersi per mezzo di una rivoluzione.
Se la lotta di classe sembra essere scomparsa dalla scena nei paesi sviluppati, non per questo essa vi gioca meno il suo ruolo. Un nesso logico unisce lotta e sconfitta. La negoziazione sindacale, a malapena capace di porre un freno agli attacchi padronali, che intaccano senza tregua le conquiste delle lotte passate, corrisponde al livello delle lotte attuali.
A partire dalla fine degli anni Settanta, borghesia e classe operaia sono diventate invisibili, sia sul piano sociale che su quello dell'immaginario. Quando la borghesia trionfa, sembrano non esistere più classi sociali. La società cosiddetta post-industriale ci veniva presentata come una realtà composta da un'immensa classe media, così ampia da occupare praticamente l'intero spettro sociale, con un pugno di ricchi finanzieri a un estremo e, all'altro, una underclass in via di estinzione. In questo contesto, ci spiegavano, operai ce ne sarebbero stati pochi, forse nessuno, o eventualmente all'altro capo del mondo,in Messico o in Thailandia.
Ora, da qualche anno, gli operai agiscono e reagiscono più di quanto non facessero vent'anni fa. In Asia, e perfino in America Latina, riescono talvolta a ottenere delle concessioni. In Europa e nel Nordamerica perdono generalmente la partita, ma muovendosi danno impulso alle idee. Questo è stato sufficiente a far sorgere un nuovo interesse intorno alla nozione di “classe sociale”, e addirittura a quella di “lotta di classe”. Ci si può domandare che cosa accadrebbe se questa radicalizzazione si approfondisse. Se, ad esempio, anziché collocare delle bombole di gas davanti alla “propria” fabbrica, dichiarando di non volere farle esplodere, i futuri licenziati della New Libris avessero lasciato intendere di voler mettere in atto la propria minaccia... Oggi la più piccola violenza è vissuta come uno choc, e le realtà della Torino o della New York dei primi del Novecento sono inimmaginabili per i nostri contemporanei. Ma un inasprimento dei conflitti svelerà ciò che questa società è realmente: una società di classe dalle contraddizioni esplosive. Nessuno può prevedere che cosa ne verrà, ma questo è l'unico terreno su cui ci possiamo muovere.
[5] Quali sono i compiti dei comunisti in un periodo di controrivoluzione come quello attuale?
Una risposta sintetica potrebbe essere: rimanere disponibili, non rinunciare a comprendere il mondo, restando inteso che lo si comprende solo agendo dentro e su di esso. Ma ancora si tratta di vedere quale tipo di azione, poiché vi sono dei modi di agire che isteriliscono.
L'attivismo ha sempre mancato il proprio obiettivo, e se lo ha raggiunto lo ha fatto creando organizzazioni come Lutte Ouvrière (8). Non insisteremo su questo punto.
Ora, esiste un genere di attivismo che non spinge ad alzarsi alle quattro del mattino per distribuire volantini ai cancelli di una fabbrica, ma che crede nelle virtù della comunicazione.
Kautsky e Lenin si pretendevano per i professori della classe operaia (9). Alcuni pedagoghi più moderni, coscienti della necessità di un auto-apprendimento collettivo, immaginano che quel che fa difetto ai proletari sia l'informazione. Certo, il metodo di insegnamento è qui differente, poiché colui che deve apprendere è invitato a istruirsi da sé. Tuttavia si continua ad assimilare il movimento rivoluzionario a una scuola. Per una volta, non citeremo la tesi di Marx su Feuerbach a proposito dell'educatore che dev'essere a sua volta educato. Ci limiteremo a dire che la circolazione delle lotte (presenti e passate) può venire solo dalle lotte stesse. È stato dopo avere ingaggiato uno scontro con la direzione aziendale, che alcuni salariati della Peugeot sono venuti a informarsi sugli scioperi del passato all'interno dell'impresa, facendo riemergere, nel momento stesso in cui ne hanno avuto bisogno, trent'anni di memoria. Ciò che vale per il tempo vale anche per lo spazio. Gli operai della Peugeot si interesseranno a quelli della Fiat quando il livello dello scontro nelle due aziende porrà dei problemi comuni, esigendo qualcosa di più di una semplice trasmissione di informazioni: un'azione comune, che si darà i propri canali di comunicazione. Si “comunica” solo ciò che si ha in comune; altrimenti si tratta di una semplice informazione, che non incide più di milioni di altre che circolano nel medesimo istante.
Farsi “cronisti delle lotte” significa ragionare come se tutte le condizioni fossero date perché, a Rio come a Shangai, i proletari insorgano; tutte, tranne una: quelli di Rio ignorerebbero che quelli di Shangai sono altrettanto disposti a farlo (e viceversa). Dunque, la questione della rivoluzione si ridurrebbe a mettere in relazione i proletari di queste due città, e quelli di ogni parte del mondo.
Non intendiamo pronunciarci sulla Cina e sul Brasile, ma per quel che riguarda l'Europa occidentale, è probabilmente disconnettendosi dall'infinita e onnipresente comunicazione ambientale, che i proletari andranno alla ricerca di quei contatti che nutriranno la loro critica radicale. Non è la penuria di parole e di informazioni a impedire di pensare, ma la parola a comando e il sovraccarico di informazioni. Presto, annunciava Arthur Caravan (10) alla vigilia del 1914, per strada non ci saranno che artisti. A distanza di un secolo, ognuno è giornalista, fotoreporter, autobiografo, polemista, critico letterario, cinematografico e di qualunque altra cosa. Parlare è necessario; tacere, anche. «Talvolta il silenzio è una forza», diceva il cineasta Elia Suleiman.
Noi non dobbiamo, giorno dopo giorno, rendere pubblica l'idea o il fatto la cui rivelazione, aggiunta come una molecola a migliaia di altre, finirebbe per rovesciare chimicamente la situazione, trasformando le rivolte parziali in insurrezione generalizzata.
In un luogo di lavoro – che si tratti di una fabbrica, di un ufficio o di una scuola (e le possibilità di critica radicale non sono le stesse in questi tre luoghi) – il “rivoluzionario”, in un periodo di pace sociale, non si trova in una posizione molto diversa rispetto a quella degli altri salariati.
Non cerca di “alzare” il livello dello scontro; non apporta a coloro che lottano il senso della loro lotta. Partecipa semplicemente alle lotte, quando ve ne sono.
Come chiunque può constatare, accade di frequente che coloro che diffondono idee rivoluzionarie (elaborando teoria, redigendo una rivista o un giornale, pubblicando libri sul passato e sul presente) sostengono di fare qualcosa di diverso da quello che fanno effettivamente. L'essenziale della loro attività consiste nella diffusione di testi ma, come se questo non bastasse, e per evitare di essere additati come “teorici” (forzatamente costretti tra le mura di casa), vorrebbero passare per “pratici”. Viceversa, ci sembra che sia importante riconoscersi per ciò che si è. Non è un difetto manipolare parole anziché pietre o fucili, a condizione di esserne coscienti, e di saper quando e dove le pubblicazioni, i siti, gli incontri e i dibattiti, al di là della semplice circolazione delle idee, cominciano a modificare almeno un poco la realtà sociale. Esiste una differenza quantitativa tangibile tra un testo diffuso in 100 esemplari e un altro con una tiratura di 10.000 copie; ma la sola differenza che ci stia a cuore è qualitativa, e dipende dalla capacità di un testo di influire sul corso degli eventi. È solo allora che l'ampiezza della sua diffusione gioca un ruolo.
[6] Quali sono, invece, i compiti dei comunisti in periodo rivoluzionario?
Non sono poi così diversi da quelli in periodo controrivoluzionario, poiché i princìpi restano i medesimi. La descrizione dei partecipanti all'occupazione del Censier nel 1968, che abbiamo tratteggiato in Dalla Sinistra comunista alla “comunizzazione” (11), ne fornisce un'illustrazione tra migliaia di altre possibili. Nel passaggio da un periodo all'altro, i comportamenti cambiano, ma non una maniera fondamentale di situarsi rispetto alla società. Noi non cerchiamo né di educare né di organizzare.
L'esperienza prova la vanità di ogni sforzo volto a organizzare le lotte altrui (organizziamo noi stessi in funzione di ciò che riteniamo possibile), a centralizzare dei movimenti isolati (come se la loro dispersione fosse dovuta all'assenza di un intervento rivoluzionario) o a innalzare dall'esterno il livello di una lotta.
Per la stessa ragione, se è vero che non aspiriamo a un ruolo dirigente, non avremmo alcuna ragione di rifiutarlo qualora le circostanze ci inducessero ad assumerlo. Laddove crediamo di possedere una buona soluzione a un problema dato, sarebbe assurdo non proporla e mettere successivamente in pratica la decisione presa. Non proviamo alcun desiderio di diventare “capi”, e perciò nemmeno paura.
Vi sono d'altronde tanti meno timori da nutrire al riguardo, in quanto un movimento sociale dinamico “seleziona” esso stesso i propri “responsabili”, e non manca di rinnovarli. Il fatto che oggi alcuni si specializzino nella teoria e nella scrittura, non li qualifica né li squalifica in relazione all'esercizio di una qualunque responsabilità all'interno delle future tempeste sociali.
[7] Quale ruolo gioca l'attività teorica nel quadro del “movimento reale”?
Nessuno può dubitare del ruolo svolto dal pensiero sociale nella storia: il corso che prenderà una crisi sarà marcato dalla produzione e circolazione di idee critiche che l'hanno preceduta. Non si può capire il 1789 senza i filosofi dei Lumi.
Ma la vostra domanda si riferisce a tutt'altra cosa, e a giusto titolo: non al melting-pot intellettuale in genere, fatto innegabile studiato dalla “storia delle idee”, ma alla collocazione e alla portata della teoria rivoluzionaria (nel senso di teoria comunista), all'interno del movimento sociale che potrebbe condurre al comunismo.
Qui la nostra risposta forse stupirà.
Prima della rivoluzione, la teoria rivoluzionaria serve principalmente a coloro che la elaborano e ne dibattono, e indubbiamente a poco altro.
Durante la rivoluzione, le idee e le discussioni condotte precedentemente all'interno di quello che potremmo definire il milieu rivoluzionario (per forza di cose debole, dal punto di vista sia numerico che della capacità d'azione) giocano un ruolo quanto meno limitato.
Prima del 1871, gli scioperi, le pubblicazioni socialiste e anarchiche, e le attività della Prima Internazionale in Francia, hanno preparato la nascita della Comune; ma questo rientra più nel dominio della propaganda e dell'agitazione (nel senso migliore del termine) che della ”attività teorica” cui fa riferimento la vostra domanda – che riguarda più i testi di Marx o Bakunin, i quali a quel tempo erano ben poco conosciuti. È stato solo in seguito che questi due rivoluzionari (pur svolgendo anche un'attività pratica) hanno tratto delle lezioni dall'esperienza della Comune, sulla quale né l'uno né l'altro avevano davvero esercitato un'influenza. Dopo il 1871, chi ha giocato un ruolo “nel quadro del movimento reale”? Per limitarci ai socialisti, la Comune ha alimentato tutte le correnti, dalle più moderate alle più radicali; il 1871 è stato tanto un mito unificante quanto un'esperienza positiva, e sono occorsi alcuni decenni perché la “lezione” essenziale ricavatane da Marx (nessuna rivoluzione senza distruzione dello Stato) fosse veramente messa a valore, in particolare da Pannekoek e da Lenin. Questa (ri)scoperta non fu il frutto di un percorso puramente teorico, ma avvenne sotto la pressione delle masse, degli immensi scioperi a cavallo tra XIX e XX secolo e dell'apparizione dei soviet nel 1905. Altri passaggi teorici fondamentali della metà del XIX secolo (la critica dei diritti dell'uomo e della democrazia, o più banalmente il comunismo) aspettano ancora oggi di essere ripresi da forze storiche capaci di farne una realtà materiale.
Su una scala decisamente più ridotta, nel 1967, a Strasburgo, l'Internazionale Situazionista non ha giocato a fare l'avanguardia (12): ha compiuto un atto che portava con sé un riflessione; atto e riflessione che furono ripresi da una frangia di studenti. Un anno prima, o un anno più tardi, sarebbe stato forse soltanto uno “scandalo” privo di conseguenze. Lo stesso si può dire dell'occupazione dell'edificio amministrativo di Nanterre, il 22 marzo 1968 (13). Precedentemente, iniziative studentesche importanti, come la manifestazione contro la guerra in Algeria organizzata dalla UNEF (14) nel 1960, malgrado l'opposizione del PCF (15) e della CGT (16), non avevano portato a nulla (salvo, in questo caso specifico, contribuire all'indipendenza algerina). Coloro che lanciano un'idea radicale o compiono un atto sovversivo, ignorano generalmente se l'idea o l'atto si riveleranno in sintonia con la propria epoca. Non dipende da noi – o comunque molto poco – l'eventualità che l'attività teorica si fonda con il movimento reale.
[8] Che importanza ricoprono il “fattore caratteriale” e la critica delle relazioni capitalistiche “interiorizzate”, in rapporto alle possibilità di successo di una futura rivoluzione comunista (pensiamo alle analisi di Wilhelm Reich, o a quelle di Camatte e Cesarano)?
L'alienazione è forzatamente una realtà che viviamo anche nel nostro corpo e nella nostra testa.
Comunizzare non significa soltanto invadere le strade, affrontare le forze dell'ordine, aprire e trasformare i luoghi della produzione (e se necessario sopprimerli), fare circolare gratuitamente beni e servizi e iniziare a vivere senza la mediazione del denaro, modificare l'assetto urbano, produrre cibi di tipo diverso e consumarli in forme nuove; ma significa anche, attraverso questo processo, sbarazzarsi della corazza caratteriale descritta da Reich. Si potrebbe citare a questo proposito anche Bronislaw Malinowski (la cui opera era conosciuta da Reich), ad esempio il suo Sesso e repressione sessuale tra i selvaggi (1921), dove egli critica «la separazione tra psicanalisi e sociologia» (ma anche tra psicanalisi e storia), e a partire da qui mette in discussione l'universalità del complesso di Edipo. E non è necessario ricordare il contributo dell'antipsichiatria (Laing, Cooper etc.).
Per rimanere al nostro tema, una rivoluzione non avrà la meglio sulla repressione esterna (polizia, esercito, milizie borghesi etc.) se non smantellando anche l'auto-repressione, quel meccanismo di difesa, quell'“inconscio corporeo” che ci protegge contro gli choc emozionali imprigionandoci al contempo dentro noi stessi e mutilandoci socialmente. Le psicologie e i comportamenti cambieranno attraverso la trasformazione del mondo. Poiché una rivoluzione non si compie in un giorno, essa richiederà e produrrà (le due cose insieme) una capacità di abbandonare vecchie abitudini e certezze, di uscire da sé, di aprirsi agli altri nel momento stesso in cui si agisce insieme a loro.
Il comunismo non sarà opera di “psicorigidi” (né di “disgregati”, come si diceva negli anni Settanta). Esso presuppone un nuovo tipo di attitudine personale, un modo diverso di stare nel mondo.Viceversa, il militante rimanda sempre al futuro il cambiamento, tanto sociale quanto individuale (dunque anche il proprio).
Chiarito questo punto essenziale, si tratta di sapere quale posto occupi questo aspetto nella vita delle società, prima ancora che nella loro evoluzione o rivoluzione. Alcuni hanno preso la parte per il tutto.
È il caso della Scuola di Francoforte. Pur accettando l'analisi marxiana dello sfruttamento del lavoro, la Scuola di Francoforte non considera più il rapporto capitale/lavoro come centrale, e lo relega a un ruolo secondario, rispetto a un insieme di fattori comportamentali a tal punto radicati nell'individuo, da far pensare che la soluzione possa venire soltanto dall'individuo stesso: ciascuno di noi dovrebbe in primo luogo liberare se stesso, prima che si possa insorgere collettivamente. Per il Reich degli anni Trenta (prima che gli Stati Uniti gli si rivelassero fatali) (17), la liberazione personale era un passaggio obbligato perché la lotta collettiva per una rivoluzione proletaria diventasse una possibilità concreta.
Dopo il 1945, la Scuola di Francoforte abbandonerà definitivamente la problematica rivoluzionaria. Per Erich Fromm, ad esempio, l'uomo fugge davanti alla libertà perché la teme, ed è necessario che impari a liberarsi di questa paura (18).
Fromm prima della guerra, Theodor W. Adorno nel 1950, e soprattutto Reich (Psicologia di massa del fascismo, 1933) (19) spiegano in modo convincente come il nazismo non si sarebbe potuto imporre, senza che gli preesistesse un concentrato di personalità autoritaria e auto-repressione invocante un capo – sostituto, quest'ultimo, di un pater familias la cui funzione e il cui potere tradizionale erano stati destrutturati dalla crisi. Tuttavia, il medesimo concentrato era presente, a quell'epoca, in diversi tedeschi non-nazisti o anti-nazisti, così come era riscontrabile in altri paesi, inclusi quelli che combatterono la Germania. Le ricerche della Scuola di Francoforte negli Stati Uniti, vi hanno d'altronde riscontrato una struttura caratteriale molto simile (20). Occorreva dunque che in Germania questa struttura fosse animata da altro che da se stessa, da un insieme di condizioni che ne hanno fatto un fattore politico decisivo. La “psicologia di massa” non spiega che la psicologia, perché è per l'appunto di psicologia che si tratta: anche se questi pensatori rivendicano un'analisi totale, facendo appello in particolare all'antropologia, ciò che essi chiamano “fatto sociale” viene trattato in quanto realtà inter-soggettiva.
Questa psicologizzazione della storia viene ripresa negli anni Settanta nella prospettiva di una trasformazione radicale dell'esistente, alla quale Horkheimer, Adorno e Habermas avevano in realtà esplicitamente rinunciato. Ma se gli intenti erano diversi, il metodo rimaneva lo stesso: dal momento che il movimento sociale era venuto meno, la priorità veniva ora assegnata alla soggettività. Dopo aver creduto che l'incapacità del capitale a soddisfare i bisogni elementari dei proletari avrebbe sospinto questi ultimi verso la rivoluzione, si sperava ora (simmetricamente) che la saturazione del falso godimento consumistico, la privazione non più del cibo ma del senso e della comunità, avrebbero innescato un'insurrezione volta non più all'avere ma all'essere. Esauritasi l'ondata di scioperi in Francia, Italia, Gran Bretagna etc., si ritenne che la classe operaia fosse effettivamente “integrata” al capitalismo,e si affermò l'idea che – nella migliore delle ipotesi – le rivendicazioni dei lavoratori potessero compensare l'alienazione del lavoro attraverso un consumo altrettanto alienante. Alcuni radicali cercarono allora un nuovo agente rivoluzionario, e rimpiazzarono il bisogno (soddisfatto, frustrato e continuamente rinnovato dalla frenesia del consumo) con una realtà che essi ritenevano non integrabile: il desiderio, ovvero l'aspirazione a un'autenticità che veniva opposta all'artificialità capitalistica.
All'origine di questa concezione, vi è un'analisi del capitalismo che riteniamo non condivisibile, poiché vede nel capitale nient'altro che un imballarsi del valore, autonomizzatosi da ogni cosa, incluso il lavoro: da qui la tesi di un capitalismo capace di autoregolarsi, anche attraverso le proprie crisi – per quanto gravi – e di inglobare tutto, dal buddismo al sindacalismo, passando per la controcultura; e che d'altra parte merita appena la qualificazione di “capitalismo”, dal momento che le nozioni di produzione, lavoro, capitale, valore e classe si fondono in una totalità auto-riproducentesi in cui perdono ogni realtà distinta. Il capitalismo, se si vuole conservare questo termine, è diventato una rappresentazione, che perdura nella misura in cui ciascuno contribuisce a mantenerne l'apparenza.
Se, come fa Jacques Camatte, si privilegia la lotta Contro la domesticazione (21), e se tutto dipende dalla nostra ostinazione a restare rinchiusi nella prigione dei nostri atteggiamenti, allora l'unica soluzione è quella di evadere, di lasciare questo mondo (22), di (ri)trovare in fondo a noi stessi qualcosa che è andato perduto ma non distrutto, qualcosa, quindi, che si può a giusto titolo definire una natura. Per farlo, occorre evadere da se stessi. È quindi logico dare la priorità al modo in cui ciascuno potrebbe cambiare mentalità e comportamenti. Si arriva così, ad esempio, a rimpiazzare l'economia con la psicanalisi: nella V serie di “Invariance”, l'esegesi di Marx cede il posto a quella di Freud.
Di fronte a una rivoluzione comunista che tarda a venire – e questo è il meno che si possa dire (cfr. risposta 1) – due tentazioni simmetriche si fanno strada: oggettivizzare la rivoluzione o soggettivizzarla. La prima attitudine, segnalata a suo tempo da Walter Benjamin e Karl Korsch (23), presenta la rivoluzione sociale come il compimento necessario dello sviluppo della società, come l'effetto ineluttabile di un meccanismo per cui la produzione capitalistica genererebbe «essa stessa, con l'ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione» (24) (la formula è di Marx; il contesto in cui si colloca sarà delineato nella prossima risposta). La seconda tentazione rinvia la soluzione storica al piano individuale, e nella migliore delle ipotesi assimila la vita sociale a una “inter-soggettività”.
Ma com'è possibile vivere diversamente fin d'ora, se il quadro è così nero come lo dipingono coloro che difendono questa posizione. Come collocarsi fuori dal mondo, in un mondo che avrebbe ormai inglobato ogni cosa? Giorgio Cesarano, nel 1975, scelse di togliersi la vita. Un suicidio non si lascia mai ridurre a una sola causa, e vi sono delle morti volontarie ben più ricche di certe esistenze. «Il suicidio è una soluzione?», si chiedeva “La Révolution Surréaliste” in un'inchiesta pubblicata nel 1925, sul n. 2 della rivista. Cesarano ha preso sul serio l'imperativo di “lasciare questo mondo”. Il suicidio può essere una soluzione individuale. Socialmente, nella misura in cui rivolge contro di sé il nichilismo dell'ambiente, equivale a una disfatta.
Il rifiuto individuale dell'esistente può essere soltanto una tensione, giammai una realizzazione effettiva. Non ci libereremo dall'alienazione se non attraverso un processo rivoluzionario collettivo.
"Nella prassi rivoluzionaria la trasformazione delle circostanze e quella della coscienza degli uomini coincidono. (...) E' soltanto attraverso la loro prassi rivoluzionaria che le masse sfruttate e oppresse possono distruggere le circostanze che le incatenano e, al contempo, la loro coscienza mistificata." (L'Ideologia tedesca, 1846) (25)
(9) Quanto ancora vi è di valido nella teoria marxiana? Quanto invece risulta a vostro avviso obsoleto e dev'essere rigettato?
Le contraddizioni di Marx sono proporzionali alla potenza della sintesi che egli ha realizzato, profonda ma inevitabilmente segnata dalla sua epoca. […]
Marx elogia lo sviluppo industriale, in quanto tappa positiva dell'evoluzione umana e condizione necessaria dell'affermazione del comunismo; ma delinea anche l'ipotesi che in Russia l'antica forma di organizzazione rurale (il mir) possa risparmiare a questo paese il passaggio attraverso il capitalismo.
Ciascuno (anche noi) trova in Marx ciò di cui ha bisogno, e la scelta del testo in questione sarà sintomatica del contenuto della lotta di classe che si considera possibile e necessario. Leggere nella sua opera una glorificazione del lavoro, dello sviluppo, e una giustificazione in anticipo sui tempi dell'isterilimento del pianeta, significa ridurre Marx ai suoi aspetti più deboli, quelli del borghese progressista.
Questo tipo di approccio, sceglie di non tenere conto di tutto ciò che Marx ha scritto.Un gran numero, se non la maggior parte dei suoi testi più rivoluzionari, in ogni caso quelli che riguardano il comunismo, non sono stati pubblicati (o ripubblicati) né da Marx né da Engels: segno inequivocabile che il loro stesso autore non ne coglieva l'interesse. Questo è vero per molte opere giovanili (i Manoscritti del 1844 furono pubblicati soltanto nel 1932), ma anche per testi della maturità come i manoscritti degli anni 1860 (i Grundrisse, pubblicati in Russia all'epoca della Seconda guerra mondiale, e il “Capitolo VI inedito” del Capitale). Il contenuto comunista della rivoluzione è per lo più assente dai due testi più emblematici, i più conosciuti e i più citati, il Manifesto e il I Libro del Capitale, o ve lo si trova soltanto in forma implicita. Il penultimo capitolo del I Libro (che si può pensare, con Maximilien Rubel, avrebbe potuto forse rappresentare una migliore conclusione dell'opera, rispetto al capitolo su “La teoria moderna della colonizzazione”) presenta la fine del capitalismo come la conseguenza logica della socializzazione capitalistica del mondo:
«Il monopolio del capitale diventa un vincolo del modo di produzione, che è sbocciato insieme ad esso e sotto di esso. La centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro capitalistico. Ed esso viene spezzato. Suona l'ultima ora della proprietà privata capitalistica.
Gli espropriatori vengono espropriati. […] la proprietà capitalistica genera essa stessa, con l'ineluttabilità di un processo naturale, la propria negazione. […] Là si trattava dell'espropriazione della massa della popolazione da parte di pochi usurpatori, qui si tratta dell'espropriazione di pochi usurpatori da parte della massa della popolazione.» (Il Capitale, I Libro, Cap. XXIV, par. 7: “Tendenza storica dell'accumulazione capitalistica”)
Basandosi su testi come questo, e ignorando completamente gli altri, i socialdemocratici (e poi a modo loro gli stalinisti) hanno creato il “marxismo”, conservando di Marx ciò che giustificava l'inquadramento delle masse nelle loro organizzazioni, e la propria partecipazione al potere al fine di gestire un capitalismo effettivamente sempre più socializzato. Da parte loro, i borghesi hanno imparato ad apprezzare un Marx “sociologo” ed “economista” che fa luce sulle contraddizioni del loro sistema.
Quanto ai proletari e a coloro che hanno mantenuto una prospettiva comunista, essi hanno cercato e visto in Marx ciò che corrispondeva al livello raggiunto dalla critica sociale della loro epoca: poiché è raro che la questione comunista venga posta, è ovvio che non soltanto l'inizio, ma anche grosse porzioni della parte centrale e finale (la corrispondenza del 1881 con Vera Zasulich sulla Russia) dell'opera marxiana rimangano per lo più neglette, e riemergano soltanto sotto la pressione delle circostanze. Il giorno in cui i proletari arabi ed ebrei che vivono in Palestina usciranno dalla tragica impasse in cui si trovano bloccati, è probabile che il superamento di molte barriere identitarie porterà alla “scoperta” di un articolo Sulla questione ebraica pubblicato nel 1844...
[10] Se per Marx e il marxismo rivoluzionario “classico” lo sviluppo delle forze produttive rappresentava una condizione oggettiva necessaria alla realizzazione del comunismo, dopo due secoli lungo i quali queste “forze” hanno mostrato tutto il loro carattere nocivo e distruttivo – e in ogni caso di non essere affatto “neutrali” rispetto alla lotta tra le classi – cosa resta oggi di questa tesi? In quale misura essa dev'essere corretta o rigettata?
Difficilmente si è più intelligenti della propria epoca. Per quanto radicale sia, la critica sociale, oggi come ieri, non sfugge alle evoluzioni e alle oscillazioni della storia.
Marx condivideva con i suoi contemporanei l'illusione di un dominio quasi totale dell'uomo sulla natura. Noi crediamo ora di aver capito che non è possibile, né auspicabile, realizzare il sogno di Cartesio: «renderci padroni e signori della natura».
Una cosa è certa: le forze produttive, da sole, non hanno mai fatto “saltare” i rapporti di produzione – come un bambino, crescendo, fa cedere le cuciture dei vestiti che indossa. Nondimeno, sarebbe un errore limitarsi a rovesciare il vecchio schema. Non è in quanto queste famose “forze produttive” sono state a lungo presentate come un fattore di emancipazione, che ora dovremmo dichiararle un fattore unicamente negativo.
Iniziamo con un po' di storia. Il capitalismo è distruttivo, certo, ma lo è sempre stato. Affermare che oggi lo sia in misura maggiore rispetto all'epoca della colonizzazione, o dell'accumulazione primitiva, o della Prima guerra mondiale, o di Hitler e Stalin, equivale a basarsi su un criterio che pare non avere bisogno di dimostrazioni: la civiltà salariale, industriale e mercantile minaccia gli equilibri vitali del pianeta. È indubbio... ma anche nel 1914-18, sembrava altrettanto evidente ai contemporanei di vivere una catastrofe senza precedenti. Allo stesso modo, dopo il 1945, con la forza di un'evidenza di cui si è perduto il ricordo, la minaccia di una guerra termonucleare pareva spalancare per la prima volta all'umanità la possibilità dell'annientamento.
Inoltre, la critica (indispensabile) della società dei consumi non può farci dimenticare che alcuni miliardi di esseri umani vivono nell'indigenza – e circa un miliardo soffre la fame – e che, nei paesi ricchi, l'onnipresenza di schermi e telefonini si accompagna a una povertà reale, che colpisce sovente anche coloro che acquistano questi oggetti. (Un segno di ricchezza, e di distinzione – per parlare come Bourdieu – è oggi d'altra parte la possibilità di farne a meno). Il capitalismo si è evoluto, dopo il 1867, ma oggi non viviamo affatto in un mondo di uomini sazi.
Il problema non è quello di individuare un grado massimo di miseria, che una volta raggiunto, darebbe inizio al Grande Giorno, o un massimo di alienazione che spingerebbe gli individui a sollevarsi contro un universo privo di senso; né si tratta di credere a un pericolo, al contempo ecologico e umano, tanto terribile da costringere infine gli uomini ad abbattere il mostro. Non esiste alcun nesso di causa/effetto (né di proporzionalità) tra il grado di gravità di una situazione e la risposta rivoluzionaria dei proletari.
Per amore e per forza, essi hanno accettato gli orrori dell'industrializzazione, Verdun, Auschwitz, Hiroshima, e molte altre infamie e sofferenze. Non vi è alcuna ragione perché la minaccia della distruzione della vita sulla Terra, o di uno sprofondamento nella barbarie, basti, questa volta, a innescare la rivoluzione comunista. Non c'è una soglia di intollerabilità oltre la quale i proletari cesserebbero di subire le false soluzioni e imporrebbero quella giusta.
Il comunismo, nelle sue varianti “marxiste” o “anarchiche”, è stato a lungo sinonimo di un mondo in cui regnerebbe «l'universalità dei bisogni e delle capacità di godimento» (Grundrisse). Oggi, allorché l'ideologia dominante in Europa e in America del Nord, pur incitando ad acquistare prodotti Hi-Tech, vanta il light e la moderazione dei consumi (meglio la bicicletta che l'automobile), la critica sociale si vede costretta a rinunciare alla prospettiva di un individuo sociale comunista capace di provare e soddisfare un massimo di bisogni.
Per molto tempo, le diverse critiche del capitalismo hanno individuato uno dei suoi apporti positivi (acquisito al prezzo di enormi sofferenze) nella socializzazione del mondo, che la rivoluzione avrebbe dovuto tradurre in un'autentica universalità. Scriveva Marx, nel 1848:
«Grazie allo sfruttamento del mercato mondiale, la borghesia dà un carattere cosmopolita alla produzione ed ai consumi di tutti i paesi. […] Le antiche industrie sono distrutte o stanno per esserlo. Vengono soppiantate da industrie nuove la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni sviluppate, industrie che non utilizzano più materie prime locali, ma quelle importate dalle zone più lontane, ed i cui prodotti vengono consumati in ogni angolo del pianeta, non solamente nel paese. Al posto dei vecchi bisogni, che venivano soddisfatti dalla produzione nazionale, sorgono bisogni nuovi, il cui soddisfacimento richiede prodotti provenienti dai paesi più lontani e dai climi più diversi. Al posto dell’antico isolamento e dell’autosufficienza delle singole nazioni, si sviluppa un commercio universale, una interdipendenza di tutte le nazioni.» (Manifesto del partito comunista).
Troviamo qui un evidente problema di scala. Una cosa è la possibilità di spostarsi da Parigi ai Caraibi, un'altra è la fantasia di volare da Parigi a Fort de France e ritorno, per passare un week-end al sole delle Antille. Quando uno yogurt mangiato a Parigi incorpora componenti provenienti da una mezza dozzina di paesi europei, e percorre svariate migliaia di chilometri prima di raggiungere il frigorifero di chi lo acquista, la razionalità produttivo-mercantile di questo processo diventa paradossale – per lo stesso capitale globale: anche se oggi questo tipo di organizzazione è redditizio, esso determina un insieme crescente di false spese (faux-frais), che l'impresa non potrà continuare a esternalizzare in eterno. Tuttavia, non ne concluderemo che si debba fare del “locale” una regola, e mangiare ad Amiens nient'altro che pommes picardes.
Negli Stati Uniti, crogiolo di tutte le mostruosità e di tutte le utopie, alcune persone ben intenzionate hanno deciso di acquistare unicamente prodotti fabbricati a non più di 100 chilometri dal loro domicilio; ma la scelta di una sobrietà felice non si spingerà certo fino a rinunciare al computer. In Occidente, tutti – noi inclusi – criticano i difetti (gravi e spesso redibitori) di un sistema di cui approfittano. Questa inevitabile contraddizione rinvia, più in profondità, a quella imposta tanto all'individuo proletario quanto ai proletari considerati come classe: vivere all'interno di un'organizzazione sociale, per quanto si cerchi di cambiarla, significa anche subirne le regole e le abitudini, alle quali nessuno può sfuggire completamente. Coloro che, come noi, criticano il potere medico e la stessa medicina in quanto sfera separata, raramente esitano a farsi curare quando ritengono di averne bisogno. Inversamente, le sette che rifiutano le trasfusioni sanguigne non rappresentano un fermento di radicalità.
Sul piano storico, i programmi comunisti che si sono succeduti, riflettono ciascuno le necessità e le preoccupazioni della propria epoca.
Alla fine del XVIII secolo, in una società ancora in larga parte rurale, dove la massa laboriosa soffre la fame mentre una minoranza privilegiata accaparra gran parte delle risorse, Babeuf vuole una riforma agraria capace di sfamare l'intera popolazione, accompagnata da una ripartizione egualitaria delle ricchezze; dare il necessario a tutti, significa negare il superfluo a qualcuno: «La sufficienza, ma nient'altro che la sufficienza» (Manifesto dei plebei, 1795). Questo perché Babeuf se la prende non solo col lusso, ma anche con quelle arti che egli giudica inutili. Qualche decennio più tardi, in un mondo in cui industrializzazione fa rima con pauperizzazione, Marx non è il solo ad auspicare una rivoluzione operaia che svilupperà l'industria e l'agricoltura “moderne”, al fine di fornire alle masse oggetti di uso corrente e cibo a sufficienza. Il passaggio dal regno della necessità a quello della libertà, è in primo luogo il passaggio dalla penuria all'abbondanza.
Malgrado la persistenza di una corrente ultra-minoritaria che oggi potremmo definire “anti-industriale”, questo punto di vista avrà la meglio fino agli anni Settanta del XX secolo. A partire dalla fine del XX secolo, i paesi cosiddetti ricchi (e, altrove, le classi privilegiate) sono trascinati in un'escalation di obsolescenza e di spreco, di cui nessuno ignora più che si effettua a spese di risorse che spesso non sono rinnovabili né rinnovate. Tuttavia, non è la critica radicale che ha costretto a questa presa di coscienza (per lo più senza seguito): è il capitalismo stesso, nella persona dei suoi dirigenti e pensatori più lucidi, che è indotto a preoccuparsi delle condizioni naturali e umane della propria riproduzione. Nel 1960, l'I.S. dimostrava la falsità dell'abbondanza mercantile; cinquant'anni più tardi, si denuncia un consumo che distrugge il pianeta, e si insiste sull'impossibilità di una sua generalizzazione (questa impossibilità era nota anche nel 1960, ma il problema non si poneva, dal momento che gli strati sociali che avevano accesso alla merce rimanevano marginali o, come in Cina, inesistenti).
Non si tratta di moltiplicare all'infinito i bisogni, come si poteva credere ai tempi di Marx, né di limitarli allo stretto necessario, come voleva Babeuf, producendo unicamente ciò che serve per mangiare, vestirsi, curarsi etc.
Questa posizione ha il merito della semplicità, ma la sua evidenza apparente ha il difetto di non definire i bisogni se non in forma negativa: non morire di fame, non dormire all'addiaccio, non soffrire il freddo e la malattia etc.
Ora, in effetti, per l'essere umano, l'abitare, il nutrirsi o il vestirsi non esistono in quanto tali, come se mi bastasse sapere che senza l'apporto giornaliero di una quantità x di calorie morirei, e che senza un'alimentazione variata rischierei delle carenze. I bisogni sono un prodotto storico e “socio-culturale”. Come distinguere il superfluo dal necessario? Chi deciderà che cosa è essenziale? Il popolo? La maggioranza? Gli esperti? Persino i più poveri ricercano il superfluo... che è necessario al loro modo di vita. All'indomani di un terremoto, è più urgente riparare le condutture dell'acqua che allestire un'opera; ma i sopravvissuti ripareranno tanto meglio quel che deve essere aggiustato, in quanto potranno organizzare degli spettacoli. L'idea che la cura dell'orto sia più importante della lezione di piano è giusta, ma un po' limitata. Quanto a decidere, oggi, se gli esseri umani debbano rinunciare all'opera (perché elitista) o al rock (in quanto rimbambisce), per preferire loro, ad esempio, i piaceri semplici e veri della festa popolare tanto cara a Rousseau, preferiamo non avventurarci su questo terreno, consapevoli che è vano proiettare i nostri gusti e disgusti d'oggi sul mondo di domani.
Il punto centrale della questione non è che l'uomo debba mangiare per vivere (e dunque che dovremmo creare una società dove ciascuno possa mangiare a sazietà), ma che, per l'uomo, “mangiare” è sempre qualcosa di più che mangiare: non si comprende l' alimentazione umana se non ci si domanda dove, come e con chi l'uomo mangia, perché arrivi a saltare volontariamente un pasto, e persino a scegliere di mangiare troppo o “male”. Se abbiamo una storia, è in quanto l'uomo non coincide con sé stesso, e modifica continuamente la propria natura. Non si potrà mai risolvere la questione umana riducendo l'esistenza a un'essenza, qualunque definizione ne venga data.
Come la rivista Hic Salta ha rilevato, nel 1998, non coltiveremo patate perché per vivere bisogna mangiare, e le patate sono nutrienti e facili da coltivare. Intratterremo piuttosto delle relazioni che mescoleranno lo sforzo al piacere, il gioco all'attività che oggi prende la forma del lavoro; e queste relazioni includeranno la coltivazione delle patate. Gli esperti di produttività non detteranno legge sotto il comunismo; gli agronomi e i dietologi, nemmeno.
Il comunismo non verrà a risolvere un bisogno: ieri il bisogno per i proletari di vivere, di rompere il ciclo infernale della miseria e della guerra, al quale oggi si aggiungerebbe quello di salvare la vita sul Pianeta. Una rivoluzione, e a maggior ragione una rivoluzione comunista, non tratta un problema come farebbe un tecnico seduto alla sua scrivania. Essa non nasce né dal solo desiderio, né dall'imperativo di rispondere a delle urgenze storiche. Esiste ed esisterà sempre più di una sola risposta a una crisi o a una catastrofe, sia pur essa planetaria e fatale, e la rivoluzione comunista non è che una delle risposte possibili.
Altre soluzioni si presenteranno e si combineranno: la riforma, la dittatura, la fuga in avanti militarista. I proletari non hanno fatto la rivoluzione quando il capitalismo “si accontentava” di sfruttarli in tempo di pace e massacrarli in tempo di guerra; saremmo ingenui se credessimo che faranno la rivoluzione ora che il capitalismo minaccia non più soltanto i proletari, ma la vita in quanto tale. Come se fosse sufficiente un cambiamento di traiettoria della catastrofe annunciata a innescare un processo rivoluzionario... Affinché la soluzione comunista venga tentata e abbia la meglio, la gravità del problema non basta: sarà necessario anche che se ne provi il desiderio.
La vostra domanda ha il merito di ricordare che la critica del capitalismo non si può limitare al capitalismo. Ciò che si tratta di sopprimere, è qualcosa di più dello sfruttamento del lavoro da parte del capitale. Il capitalismo integra e riassume, a modo suo, alcuni millenni di dominio dell'uomo sull'uomo, supera alcune vecchie contraddizioni (in particolare per mezzo della democrazia) e ne moltiplica altre.
La potenza del sistema industriale (quello che alcuni chiamano la mega-macchina) rende oggi drammaticamente realizzabile il sogno di una domesticazione universale – ivi inclusa quella di altri uomini – e addirittura la possibilità dell'auto-creazione dell'uomo.
Tuttavia, come abbiamo scritto nella risposta alla domanda n. 4 del vostro questionario, il mondo attuale, etichettato erroneamente come “post-industriale”, riposa sul rapporto capitale/lavoro, e non ci sbarazzeremo dell'alienazione-reificazione-dominazione-domesticazione se non mettendo fine al salariato, che continua a determinare l'evoluzione umana, oggi ancor più che nel 1867.
* * *
L'interesse di questo questionario risiede nel suo carattere globale. Le domande n. 8 e 10 rinviano alla prima, che si interroga sull'assenza o il “ritardo” di una rivoluzione comunista che viene annunciata da oltre un secolo e mezzo. Non si può fornire alcuna garanzia che essa un giorno si realizzerà, né alcuna “chiave” teorica che ne dimostri la necessità. Non esistono scorciatoie. Teorizzare una reazione individuale di esodo dal mondo si rivela inoperante: il cambiamento sociale non sarà la risultante di milioni di cambiamenti individuali (risposta n. 8). Inversamente, fondare la necessità della rivoluzione sull'urgenza di bisogni essenziali, e la società comunista sulla soddisfazione dei bisogni, sembra fissare la nostra teoria a un basamento solido, in quanto costituito da esigenze fisiche e psicologiche; ma questa solidità è solo apparente: nessun bisogno umano può essere compreso e soddisfatto unicamente in quanto fatto materiale (risposta n. 10).
Fino a quando ci dibatteremo nel dilemma desiderio/bisogno, penuria/abbondanza, individuo/società, e naturalmente soggetto/oggetto, sarà il sintomo che la questione della rivoluzione comunista non è ancora posta storicamente.
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NOTE
1 Cfr. Jean Barrot [Gilles Dauvé], Le Mouvement Communiste, Champ Libre, 1972 [ndr].
2 Gilles Dauvé, Karl Nesic, Au-delà de la démocratie, L’Harmattan, 2009; di prossima pubblicazione anche in trad. it. ndr].
3 Gilles Dauvé, Quand meurent les insurrections. 1917-1937, Troploin, 1998; di prossima pubblicazione anche in trad. it., in appendice al volume: Agustín Guillamón, I comitati di difesa della CNT a Barcellona (1933-1938), a cura di Dino Erba, Ed. All'insegna del gatto rosso, Milano, 2013 [ndr].
4 Treno ad Alta Velocità [ndr].
5 Karl Marx, La guerra civile in Francia, Editori Riuniti, Roma, 1977 [ndr].
6 Gilles Dauvé, Karl Nesic, Contribution à la critique de l’autonomie politique, Lettre de Troploin n. 9, gennaio 2009. Trad it. parziale disponibile sul web, all'indirizzo http://mondosenzagalere.blogspot.it/, sotto il titolo Contro la democrazia [ndr].
7 Karl Nesic, L'Appel du vide, Troploin, 2003 [ndr].
8 Formazione politica francese di matrice trotskista, costituitasi nel 1968 [ndr].
9 Cfr. Jean Barrot [Gilles Dauvé], Il “rinnegato” Kautsky e il suo discepolo Lenin, disponibile sul web all'indirizzo http://mondosenzagalere.blogspot.it/ [ndr].
10 Pugile e poeta inglese (1887-1918), tenuto in grande considerazione dai dadaisti e dai surrealisti [ndr].
11 Pubblicato nel volume Gilles Dauvé [Jean Barrot], Le Roman de nos origines. Alle origini della critica radicale, Quaderni di Pagine Marxiste, 2010 [ndr].
12 Il riferimento è al cosiddetto “scandalo di Strasburgo”, messo in atto dall'Internazionale Situazionista nella città universitaria francese, appunto nel 1967. Cfr. Della miseria dell’ambiente studentesco, trad. it. in «Vis-à-Vis – Quaderni per l’autonomia di classe», n. 6, Massari, 1998 [ndr].
13 Questa occupazione segnò la nascita del movimento “22 marzo”, in cui confluirono numerosi gauchistes e anarchici. Il “22 marzo” si sciolse solo pochi mesi dopo [ndr].
14 Union Nationale des Etudiants de France, sindacato studentesco francese [ndr].
15 Parti Communiste Français, Partito Comunista Francese [ndr].
16 Confédération Générale du Travail, sindacato francese tradizionalmente vicino al PCF [ndr].
17 Wilhelm Reich morì nel 1957 nel carcere di Lewisburg, Pennsylvania, dove era recluso a seguito di una condanna per oltraggio alla corte, collegata alle indagini condotte dalla Food and Drug Administration sulla sua “terapia orgonica” [ndr].
18 Rolf Wiggershaus, L’Ecole de Francfort: histoire, développement, signification, PUF, 1993. [Erich Fromm, Fuga dalla libertà, Edizioni di Comunità, 1980, ndr].
19 Erich Fromm, op. cit.; Theodor W. Adorno et al., La personalità autoritaria, Edizioni di Comunità, 1997; Wilhelm Reich, Psicologia di massa del fascismo, Einaudi, 2009 [ndr].
20 Theodor W. Adorno et al., op. cit.
21 Jacques Camatte, Contro la domesticazione, in Id., Verso la comunità umana, Jaca Book, 1978 [ndr].
22 Jacques Camatte, Questo mondo che bisogna abbandonare, ibid. [ndr].
23 Karl Korsch, Marxismo e filosofia, Sugar, 1970; Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Id., Angelus Novus, Einaudi, 2006 [ndr].
24 Karl Marx, Il Capitale, Libro I, cap. XXIV, par. 7: “Tendenza storica dell'accumulazione capitalistica”, Einaudi, 1978, p. 937 [ndr].
25 Trad. redazionale
dal sito http:/ / illatocattivo.blogspot.it/
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