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venerdì 20 luglio 2018

NELSON MANDELA. A CENTO ANNI DALLA NASCITA UN BILANCIO CONTRADDITTORIO di Antonio Moscato




NELSON MANDELA. 
A CENTO ANNI DALLA NASCITA UN BILANCIO CONTRADDITTORIO
di Antonio Moscato



In Sudafrica anche dopo la morte di Nelson Mandela, il primo presidente nero, il 18 luglio è stato sempre celebrato il suo compleanno. Quest’anno, in cui avrebbe compiuto cento anni, la ricorrenza è stata salutata con particolare solennità. Innegabili i suoi meriti per aver tenacemente condotto la lotta per i diritti senza cedere mai alla disperazione, per 27 lunghi anni di prigionia in varie fasi durissima, e per essere riuscito a evitare almeno in parte il rischio di un bagno di sangue, anche al prezzo di un perdono reciproco senza punizioni che metteva sullo stesso piano oppressi e oppressori.

Ma è necessario sfuggire alla retorica delle celebrazioni e tracciare un po’ di bilanci di un paese in cui le disuguaglianze sociali si sono accresciute enormemente anche grazie alla collaborazione di una parte significativa del vertice dell’ANC (African National Congress) e dei potenti sindacati, e, naturalmente, sotto la tutela della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale. Il principale oratore nella celebrazione dell’anniversario a Johannesburg non a caso è stato Barack Obama...

Pochi hanno attribuito a Mandela una diretta responsabilità per questo risultato, per il semplice motivo che personalmente nella sua breve presidenza, tra il 1994 e il 1999 aveva cercato di contrastare la corruzione, senza macchiare il suo passato limpido di lottatore. Eppure Mandela aveva speso il suo enorme prestigio per contrastare le tendenze più radicali dell’ANC, e per impedire fin dai primi giorni di governo che la democrazia formale si accompagnasse a misure radicali di restituzione dei beni sottratti alla maggioranza della popolazione. Lo ammette egli stesso nel secondo volume delle sue memorie, apparso recentemente con integrazioni e aggiunte della vedova Graça Machel e dello scrittore sudafricano Mandla Langa, incaricato proprio dalla Nelson Mandela Foundation di completare il progetto, che è stato recentemente pubblicato in Italia da Feltrinelli in una edizione molto accurata in cui è facile distinguere le parti scritte dallo stesso Mandela da quelle ricavate da testimonianze e documenti.[1] 
Dal libro risulta che già prima della sua elezione a presidente, nel 1992, aveva rinunciato alle nazionalizzazioni che fino a quel momento aveva sempre considerato indispensabili per abbinare la giustizia sociale alla fine della segregazione etnica e razziale. Era accaduto ai margini del World Economic Forum di Davos, ma a convincerlo non era stato qualche finanziere in redingote, ma il primo ministro cinese Li Peng, che gli chiese un colloquio a tu per tu ai margini del convegno in cui gli disse che dall’esperienza cinese emergeva che la nazionalizzazione era stata un errore. Anche il primo ministro vietnamita, in quell’occasione, gli diede consigli in tal senso. Fino a quel momento, il controllo statale sui capitali era stato presente nei programmi dell’ANC e del partito comunista sudafricano a cui lo stesso Mandela era iscritto da lungo tempo. 
Grazie agli ultimi rappresentanti del “socialismo reale” in circolazione, Mandela fu convinto e il risultato fu che il ministro delle finanze sudafricano (nero...) Trevor Manuel, in carica per ben tredici anni, dal 1996 al 2009, è stato lodato a Washington per i suoi “successi economici su vasta scala”. Il parere di un esperto come George Soros, era invece già nel 2001 che il Sud Africa era stato consegnato nelle mani del capitale internazionale.

La responsabilità non era certo del solo Mandela e neppure di Trevor Manuel, che era stato a lungo militante dell’ANC, e ministro del Commercio e dell’Industria fin dal primo governo Mandela. Pesava su tutti loro il crollo morale dell’URSS ma anche l’involuzione profonda di paesi come la Cina e il Vietnam che solo apparentemente avevano rappresentato un’alternativa all’URSS. Per chi lo avesse dimenticato, Li Peng era stato “il macellaio di Piazza Tien Anmen...

Il libro di memorie è come spesso accade abbastanza reticente, ma fornisce alcuni elementi per capire il ruolo di Mandela per rafforzare una prospettiva di collaborazione di classe nei paesi in cui il Sudafrica interveniva a nome dell’ONU o dell’organizzazione dell’unità africana. È sorprendente che dai suoi appunti emerga l’indignazione nei confronti del leader congolese Laurent Kabila, che rifiutava un’intesa pacifica con il dittatore Mobutu, vecchio e malato ma che aveva accumulato enormi ricchezze depositate in vari paradisi fiscali, più o meno equivalenti al gigantesco debito del suo sventurato paese. Mobutu aveva debuttato avendo un ruolo essenziale nell’assassinio di Patrice Lumumba, e aveva raccolto intorno a sé non pochi criminali, ma Mandela voleva convincere Kabila ad accettare “un approccio inclusivo nella formazione del nuovo governo”, cioè accogliere i seguaci di Mobutu nel nuovo Congo.

Insomma Madiba aveva accettato pienamente e riproponeva a tutti quel che era stato forse necessario fare nel Sudafrica per spezzare la morsa dell’apartheid tenendo conto dei rapporti di forza. È questo che rende la sua eredità ambivalente: altissima sul piano morale, grazie al suo passato di lotta e di tenacia, confusa politicamente perché influenzata dalla crisi generale del movimento comunista e dei movimenti di liberazione, che ha avuto manifestazioni penose anche in paesi come l’Angola e lo stesso Mozambico, la cui storia si è intrecciata spesso con quella del Sudafrica.




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[1] Nelson Mandela e Mandla Langa, La sfida della libertà. Come nasce una democrazia, Feltrinelli, Milano, 2018



18 Luglio 2018


dal sito Movimento Operaio




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