Diari di Cineclub

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domenica 27 febbraio 2011

MARCHIONNE E LA MOZIONE UNO E MEZZO di Lorenzo Mortara

                                      

             MARCHIONNE E LA MOZIONE UNO E MEZZO

                                    di Lorenzo Mortara

Questo testo è già apparso in due altri siti (Utopia rossa e Sotto le bandiere del marxismo) qui è stato arricchito, rivisto e corretto. Può essere interessante riandare alle origini dello scontro Marchionne-Fiom, per affrontare meglio l'evolversi della situazione dopo il referendum su Mirafiori.



Lo scambio epistolare tra Marchionne e i lavoratori avviene in piena mattanza di delegati Fiom. La risposta più alta del massimo sindacato di categoria viene da Giorgio Cremaschi, nel bene e nel male il nostro dirigente migliore. Condivido la sostanza del suo articolo se si eccettua l’assunto iniziale: alla Fiat non c’è alcun fascismo, ma solo il volto più genuino del capitalismo. E bisogna batterlo. Tutto qua. Certo, abbatterlo sarebbe meglio, ma nelle condizioni in cui siamo oggi, è fondamentale una prima chiara vittoria dopo anni di sconfitte. Alla Fiat le premesse ci sono tutte: il flop del plebiscito referendario a Pomigliano, la repressione a Melfi e a Mirafiori e gli scioperi in risposta degli operai. Chiunque abbia anche solo la più pallida idea di cosa sia quella specie di lager della Fiat, sa che scioperi spontanei non sono facili da organizzare. Quando vengono fuori da soli vuol dire che il grado di consapevolezza e combattività dei lavoratori è relativamente alto. In effetti è proprio così, il problema è vedere se ai piani alti della Fiom saranno in grado di percepire il segnale e ritrasmetterlo, moltiplicato, a tutto il comparto decisivo dei metalmeccanici. Per ora, e non poteva essere diversamente, registriamo il ritardo dei nostri dirigenti sulla combattività dei lavoratori. Landini vuol difendere lo sciopero e la malattia, aprendo le porte ai turni massacranti  (1). Deve aver confuso il diritto alla mutua in caso isolato di malattia, con il dovere natural-durante di ammalarsi. Alla stessa maniera, fa fin sorridere la presa di posizione in favore del diritto di sciopero. L’unico modo per difendere il diritto di sciopero è farlo non appena qualcuno osi metterlo in discussione. Landini vuol difendere il diritto di sciopero dall’alto di una burocrazia che si riserva da anni il dovere di non proclamarlo praticamente mai. Tutta qua la Fiom barricadiera. Non parliamo poi dei massimi dirigenti della Cgil. Epifani  invita la Confindustria a ritornare sui suoi passi e a ritirare i licenziamenti perché teme il rischio di radicalizzazione. Chi rischia, s’è dimenticato di aggiungere, sono i padroni, noi infatti dalla radicalizzazione abbiamo solo da guadagnarci diritti epocali come lo Statuto dei Lavoratori eccetera. Radicalizzazione vuol dire mobilitazione, ed Epifani e la Mozione 1 da lui rappresentata non sono altro che la parte di Cgil contraria ad ogni mobilitazione. Normale quindi la posizione di Epifani. È la Mozione 2, quindi la Fiom in testa, che ancora non scioglie gli ormeggi e si attarda in sterili denunce. Essendo un coacervo di gente seriamente intenzionata a lottare per i propri diritti mischiate con tante altre trovatesi al suo interno per caso, la Mozione 2 non può che riflettere lo stallo delle contraddizioni interne alla Fiom. La Mozione 2 va ribattezzata col suo vero nome: Mozione uno e mezzo !    (2)
Parte della Fiom si limita a piagnucolare come una femminuccia di fronte alla repressione dei suoi delegati. Tocca ai più coscienti, stare alla loro testa, aiutandoli a migliorarsi. Quattro licenziamenti sono un buon segno, significa che i delegati Fiom si stanno muovendo abbastanza bene. È chi non viene licenziato che dovrebbe spiegarci che razza di delegato sia. Non è un disonore essere ancora al proprio posto, ma certo un sindacato come un delegato che non abbia mai rogne col padrone, prima o poi dovrà spiegare ai lavoratori a chi offra il suo servizio. E non sarà facile convincere gli operai della sua buona fede.
La parte più attiva della Fiom non stia lì a piangersi addosso, faccia reintegrare quanto prima i nostri eroici soldati, nel frattempo li metta a servizio della sua struttura perché affilino il loro spirito critico. Le lacrime isteriche vanno lasciate, al massimo, ai sostenitori della Prima Mozione! Saranno perfette, tra l’altro, per i loro occhi da coccodrillo.
La lettera di Marchionne, se confrontata con la risposta dei lavoratori, è emblematica: la coscienza dei padroni è ancora immensamente superiore rispetto alla nostra. Se i nostri massimi dirigenti non aiuteranno i delegati a colmare il divario, non saranno mai all’altezza dello scontro. E senza essere all’altezza dei padroni, non ci eleveremo mai al di sopra della schiavitù salariata.
Quella di Marchionne, è la solita lettera che tutti i padroni scrivono dal 1800. È ideologia borghese allo stato puro. Se le ideologie fossero davvero finite, sarebbe finita anche la loro. E se è viva e vegeta la loro, vuol dire che la nostra non è affatto morta, è solo assopita, sepolta tra le macerie delle innumerevoli sconfitte degli ultimi anni. Alla prima vittoria importante tornerà fuori più forte e robusta di prima.
Oltre ai soliti luoghi comuni riassumibili in “siamo tutti una grande famiglia”, Marchionne scrive che «non ci sono alternative». In effetti è proprio così: alternative non ce ne sono, ma per i padroni, non per i lavoratori. L’alternativa per i lavoratori sono loro stessi. Quest’alternativa si materializzerà non appena accetteranno di battersi senza compromessi, fino in fondo contro Marchionne. «Le regole della competizione internazionale – scrive ancora il vecchio idolo di tanti burocrati – non le abbiamo scelte noi e nessuno di noi ha la possibilità di cambiarle, anche se non ci piacciono». Non male per essere l’ultimo arrivato tra i pompati grandi uomini del Paese! Tutti i più grandi uomini della Storia, dalle Alpi alla Sicilia come dalle Ande agli Urali, hanno fatto di tutto pur di poter cambiare anche solo di una virgola il mondo, lui è il primo che pretende entrare nella leggenda delle scimmie lasciandolo fermo e immobile, a immagine e somiglianza della giungla pietrificata che c’ha nella testa! È evidente, dunque, che quelle di Marchionne sono solo manie di grandezza, perché in concreto, dietro il maglioncino, c’è solo un’altra bestia dello zoo safari fiera d’essere entrata per sempre, alla prima lettera d’ammissione, nella pattumiera umana della Storia.
Per fortuna, solo Marchionne e quelli come lui non hanno la possibilità di cambiare le regole di una competizione senza regole, perché anche se fingono di non amarle, in realtà le adorano come il più ridicolo dei feticci. Quando Marchionne dice che nessuno può cambiare le regole del mercato, intende soltanto nessun padrone. E nessun padrone può cambiare le regole, perché ognuno di loro vuol sfruttare senza pietà gli operai. In effetti, dietro il carattere impersonale del mercato che Marchionne vorrebbe indipendente, oggettivo e assoluto, ci sta solo la volontà collettiva, di classe, degli interessi di tutti i padroni. Perché se volessero, nessuno vieterebbe loro di accordarsi per elevare salari e diritti su scala internazionale. Se non lo fanno non è perché è impossibile, ma perché gli è impossibile volerlo. E ci mancherebbe pure che i padroni volessero cambiare le regole di un gioco truccato che fa vincere sempre e solo loro. Sono i lavoratori e soltanto loro che possono e devono cambiarle. Anzi, a essere più precisi, non devono solo cambiarle, ma proprio farle sparire dalla circolazione per sostituirle con un socialismo eccezionale. Compito arduo per i lavoratori, del resto se fosse facile sarebbe simile in tutto e per tutto a quelli che si è imposto Marchionne, ma per quanto arduo sia non sarà impossibile se non si faranno più illusioni di fronte alla letteratura pubblicitaria degli amministratori delegati a liquidare la Fiat. La lettera dei delegati della Fiom, purtroppo, di illusioni, se ne fa ancora molte. È una pia illusione credere che in Italia manchi una politica industriale dagli anni ’60. Un’altra politica industriale non esiste, né esisterà mai. Per i padroni, una buona politica industriale è quella che dà buoni profitti. Basta guardare quanti ne hanno fatti negli ultimi vent’anni per capire che la loro politica industriale non è solo buona, ma ottima. Ed è per questo che a loro essere competitivi non basta. A loro, tagliare per primi il traguardo della competizione non frega un tubo se questa non porta profitti. Alto o basso che sia, il salario non mina la competizione di una fabbrica in grado di stare sul mercato come quella di Melfi. Dal salario, però, dipende il profitto. Più è alto il salario, più si abbassa il profitto e viceversa. Ecco perché Marchionne vuol schiacciare il più possibile il salario. Schiacciare il salario è la migliore delle politiche padronali e bisogna prenderne atto. Altre politiche sono un’eccezione che confermano le normali politiche di tutti i Marchionne del mondo.
Quello che manca, ad essere generosi dagli anni ’80, è una politica sindacale. Ma la politica sindacale, in assenza di un partito, è la politica stessa per quanto monca della classe operaia. Ai tempi belli ma tristi dei 35 giorni alla Fiat, qualche anima audace propose, inascoltato, la riduzione dell’orario di lavoro. Sono passati 30 anni da quella sconfitta, 30 anni di ritardo della classe operaia sulla necessità impellente dell’accorciamento della giornata lavorativa. E la riduzione dell’orario, è in sintesi la politica della classe operaia. Alla Fiat del 2010 ci sono di nuovo le condizioni per provare a metterla in pratica. Manca solo un piccolo sforzo. Basta che i delegati Fiom, per un po’ di inchiostro simpatico, non si sottomettano al Marchionne-pensiero. È la propaganda di Marchionne penetrata fin nelle loro teste, senz’altro le migliori che abbiamo, a fargli scrivere che “non si tratta di contrapporre lavoratori e imprenditori”. In realtà, si tratta proprio di contrapporre lavoratori e imprenditori. E sono proprio loro, i delegati della Fiom, che hanno la grande responsabilità di farlo. Gravissimo errore sarebbe non sobbarcarsela.
Quando i Marchionne scrivono le lettere che scrivono, non si rivolgono mai ai lavoratori, ma a sé stessi, agli altri azionisti e al cinismo che li tiene tutti uniti contro gli operai. L’Amministratore Delegato, ha in pratica scritto una lettera d’amore al suo portafogli.
Alla stessa maniera, la risposta dei delegati Fiom deve rivolgersi ai lavoratori, non ai Marchionne. Non è lui che deve essere invitato a venire in mezzo agli operai. Stia pure lì dov’è a raccontarsi allo specchio le sue favole. Sono i delegati che devono stare in mezzo ai lavoratori per stringersi assieme a loro nella lotta serrata contro di lui. Quando i Marchionne dichiarano guerra, infatti, non bisogna cercare mille scappatoie pur di evitarla, ma provare una buona volta a vincerla. Tutta la classe operaia aspetta una grande vittoria da più di trent’anni. I lavoratori della Fiat hanno una grande occasione per farle riprovare quell’ebrezza perduta. I delegati della Fiom non la sprechino con altre inutili chiacchiere. Coraggio, allora, audacia, audacia e ancora audacia...!
E noi, piccoli delegati di provincia? Non possiamo proprio fare niente per aiutare i delegati metropolitani? Di norma sono i grandi centri industriali a trascinarsi dietro le periferie meno importanti. Questo non vuol dire che dobbiamo starcene con le mani in mano ad aspettare che si muovano alla Fiat. Anzi, prima muoveremo il nostro “cantone”, prima i grandi centri industriali, alleggeriti dall’inerzia della provincia, accelereranno a razzo la lotta di tutta la classe italiana verso il traguardo della prima grande vittoria del nuovo millennio.


Lorenzo Mortara
Rappresentante Fiom-Cgil
Rete28Aprile

Vercelli, 18 Luglio 2010
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NOTE

1) Si veda La Repubblica di Venerdì 2 Luglio 2010


2) Debbo la paternità dell’espressione al genio di Roberto Massari. Non ho resistito e l’ho fatta subito mia, tanto la trovo calzante. Spero che questa nota basti a saldare il debito col compagno editore.

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