Diari di Cineclub

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domenica 13 febbraio 2011






PIERRE NAVILLE:
L’AUTOGESTIONE DEL GODIMENTO

di Roberto Massari






Dal libro di Pierre Naville "Ricordi e pensieri - L'ultimo quaderno (1988-1993)"- Ed.Massari 2010. Pubblichiamo questo interessante saggio di Roberto Massari su questa importante figura del socialismo francese tra i fondatori oltretutto della Quarta internazionale.
Ringraziamo l'autore per la sua consueta disponibilità

Il rapporto di lavoro salariale (le salariat) globale

Per una grande maggioranza del mondo no-global (per la sua base, come si diceva un tempo), il termine “globalizzazione” viene spesso semplificato, riducendolo fondamentalmente al fatto che prodotti come la Nike vengano fabbricati in paesi poveri come l’Indonesia o il Vietnam, a prezzi di costo inferiore quanto a manodopera, per essere poi commercializzati in tutto il mondo. Molti celebri maitres-à-penser del movimento no-global si ritrovano in questo concetto così riduttivo della globalizzazione, anche se lo formulano con un linguaggio più sofisticato, in libri dal fascino simbolico (Noemi Klein) oppure talmente gravati di riferimento a episodi di cronache giornalistiche (Jean Ziegler) da rendere difficile la percezione della loro ipotesi di fondo.
Per altri ancora (Hardt-Negri) è talmente matura la contraddizione “biopolitica” racchiuse in quelle scarpe fabbricate “altrove”, che esse sarebbero in grado ormai di esprimere l’immagine tradizionale del rapporto capitale/lavoro e Stato/rapporti sociali di produzione solo come un’unica grande dissolvenza (epistemologica ancor prima che storica) dietro la quale si delinea l’incerta nebulosa del nulla-storico, del non-stato, del non-capitalismo, del non-produttore di plusvalore.
Comunque ci si aggiri sul terreno della riluttività sistemica dei rapporti sociali nell’era della cosiddet ta “globalizzazione”, essa è tale da non farci più intendere: a. per quali ragioni vere il capitale vada a fabbricare le Nike “laggiù” e b. quale rapporto sociale sia inglobato in quelle calzature.
Al secondo quesito Naville risponderebbe serenamente, ma con inesorabile argomentazione storico-sociologica, dicendo che si tratta in essenza e pur sempre di un rapporto di lavoro salariale (le salariat), inteso come rapporto sociale storicamente determinato e determinante a sua volta l’insieme dei possibili rapporti sociali di produzione nel mondo. Ma lo intenderebbe allo stesso tempo come categoria dell’analisi sociale, valida su scala mondiale, riferibile anche ciò che si dovrebbe più o meno intendere per “globalizzazione”.
Sarebbe quindi una categoria fondamentale, interpretativa della realtà capitalista contemporanea, alla cui spiegazione egli ha dedicato il meglio delle proprie risorse intellettuali: pensiamo a come minimo ai sette volumi de Le nouveau Léviathan, 1967-74 (includendovi La guerre de tous contre tous, 1977 e Sociologie et logique, 1982; ma anche altri libri ugualmente preziosi come Sociologie d’aujourd’hui, 1981).
In rapporto all’analisi del processo lavorativo che conduce alla produzione di quelle ed altre merci (a partire dal loro valore d’uso originario) e sulla descrizione del contesto internazionale di mercato, di poteri e di contropoteri in cui esse acquisiscono il loro valore di scambio, Naville ha fornito gli strumenti per rispondere anche al quesito a) sopracitato, e lo ha fatto conducendo una lunga e ininterrotta ricerca, durata una vita e ciononostante incompiuta. Lungo tale ricerca scorre come corrente sottomarina, o a tratti sopramarina, la percezione dell’intrinseca unitarietà del tutto, l’idea di una funzionalità globale delle connessioni sociali ed economiche che si diramano –come rete logica e operativa allo stesso tempo- nel processo di produzione e riproduzione del rapporto sociale fondamentale (le salariat, per l’appunto, già ricordato). Si tratta di una ricerca che lo stesso Naville ha più volte ricondotto all’avviso che Marx diede al futuro ricercatore o studioso di scienza sociale, quando scrisse che è sempre nel

rapporto diretto fra i proprietari delle condizioni di produzione e i produttori diretti … che noi troviamo l’intimo arcano, il fondamento nascosto di tutta la costruzione sociale e quindi della forma politica del rapporto di sovranità e dipendenza, in breve della forma specifica dello Stato in quel momento. Ciò non impedisce che la medesima base economica … possa manifestarsi in infinite variazioni o gradazioni, dovute a numerose circostanze empiriche, condizioni naturali, rapporti di razza, influenze storiche che agiscono dall’esterno, ecc.: variazioni e gradazioni che possono essere comprese soltanto mediante un’analisi di queste circostanze empiriche date” (Il Capitale, III, cap.47 –p.903-)

Naville si riallaccia a questa celebre formula di Marx (posta quasi al termine della sua opera fondamentale, ma di cristallina comprensibilità perché non scritta in astruso linguaggio hegeliano), riportandola nella Prefazione del 1967, posta all’inizio del suo De l’aliénation à la jouissance (1954, 1967), generalmente considerata l’opera principale di Naville e della quale ho avuto l’onore di curare la traduzione in italiano insieme ad Antonella Marazzi (Dall’alienazione al godimento, Jaca Book, 1975).


Unitarietà d’analisi, contro dualismi, trialismi ecc.

L’unitarietà e la pervasività mondiale del rapporto di lavoro salariale –inteso d’ora innanzi come rapporto sociale fondamentale- entrano a far parte dello spettro teorico di Naville non in contesto di analisi di un qualsiasi ciclo espansivo del capitale su scala internazionale, ma nello studio comparato dei regimi cosiddetti “socialisti” con i regimi dell’imperialismo classico. Va ricordato che Naville si era formato metodologicamente e precocemente agli esordi dell’analisi trotskiana del sistema staliniano, e che tale sistema lo aveva visto trasformarsi nel dopoguerra in un blocco piramidale di Stati in cui dominavano caste burocratiche totalitarie, oppressive e appropriatrici del surplus sociale. Egli si pose l’obiettivo di approfondire i termini di una loro definizione, di attualizzarla sociologicamente. Arrivò così a dimostrare (con il contributo di cinque volumi de Le nouveau Leviathan) che la struttura del rapporto di lavoro salariale in quelle società assolveva alle stesse funzioni sociali del rapporto salariale nelle società apertamente capitalistiche. A partire da quel momento (si fa per dire, perché la ricerca e durata decenni ...) il quadro unitario era finalmente ricomposto.
In fondo, un quadro autenticamente unitario di analisi del paese Terra (del fenomeno per cui l’intera umanità si sarebbe potuto rappresentare in un’unica grande scena corale, vale a dire nella sua divisione fondamentale tra i “proprietari delle condizioni di produzione” e i “produttori diretti” non si era mai dato all’interno del pensiero sociale marxista e non. O si era data male, o attraverso intuizioni, o per altre vie concettuali (penso ai contributi di Parvus, Trotsky e della Luxemburg, pionieri nella formulazione della legge dello sviluppo ineguale e combinato). E comunque non si era mai applicata concretamente alla spiegazione della globalità del fenomeno salariale nel mondo.
Alle origine del marxismo –ma anche alle origini della migliore sociologia borghese (Max Weber innanzitutto)- e tra le menti più elevate della Socialdemocrazia prima del 1914, la distinzione tra paesi capitalistici sviluppati e paesi coloniali, poi dipendenti, poi in via di non-sviluppo, poi nazionalisti tendenzialmente autarchici, sino a riformulazioni recenti, si era per lo più incagliata in una visione sostanzialmente dualistica dell’analisi sociale. Tale dualismo esploderà in tutta la sua fragilità teorica con i “nuovi”marxisti latinoamericani degli anni ’60-’70 (quelli schierati al di qua della barriera del subdesarollo) che, pur avendo dato buoni contributi in analisi settoriali di situazioni specifiche, non hanno saputo spiegare la storicità del fenomeno capitalistico mondiale in termini unitari e globalizzanti. Un giorno si potrà dire apertamente anche quali prezzi politici siano stati pagati per la diffusione acritica di quelle visioni dualistiche applicate alle realtà latinoamericane.
Con la nascita di regimi burocratici dittatoriali sulla scia della feroce controrivoluzione staliniana, il dualismo teorico del marxismo delle origini, del revisionismo “ortodosso” della Seconda internazionale e del leninismo di Lenin si tradusse in tanti nuovi dualismi, diversi a seconda della collocazione geopolitica del teorico interessato all’argomento. La Guerra fredda sembrò rendere storicamente spettacolare il dualismo politico tra il regime sociale dell’Urss e quello imperialistico degli Usa/Gran Bretagna, che fu poi complicato dalla nascita del Movimento dei non-allineati, dai conflitti Cina-Urss e Vietnam-Cambogia, dall’assorbimento del castrismo nell’area sovietica (in barba ai proclami del “nuovo” marxismo latinoamericano di cui sopra) e dalla ripresa del conflitto operaio nelle metropoli imperialistiche. (per i contributi principali di Naville su alcuni di questi temi, si rinvia a La guerre et la révolution, I. Guerres d’Asie, 1967; Pouvoir militare et socialisme au Portugal, 1975; La Chine future, 1952; L’entre-deux guerres, 1975; La classe ouvrière et le régime gaulliste, 1964.)
Il disfacimento delle visioni dualistiche non portava all’unitarietà dell’analisi sociale globale (mondiale), ma a un frazionamento ulteriore in visioni trialistiche (terzomondismo tradizionale, ma anche le proiezioni, per alcuni versi interessanti, degli intellettuali di area Trilateral), quando non addirittura ad una vera e propria frammentazione (teorizzazioni volte a giustificare volta per volta l’emergere di paesi di nuova indipendenza; istituzione di trattati interstatuali su basi regionali in Asia, Africa e America latina; nuova estensione politico-religiosa dei vari islamismi ecc.).
Ebbene, solo la percezione del rapporto di lavoro salariale come rapporto fondamentale costitutivo di ogni regime sociale esistente sulla Terra, rendeva finalmente possibile, secondo Naville, l’analisi del contesto mondiale –pur nella sua complessità- come un fenomeno unitario, quindi riducibile a categorie omogenee, quindi finalmente comprensibile anche nelle sue più intime interconnessioni.


Una critica a Ernest Mandel

Naville era molto fiero di questa sua costruzione metodologica. E al riguardo mi permetto di citare un aneddoto personale, che poi tanto personale non è, viste le sue implicazioni teoriche.
In occasione di una delle mie prime visite nella sua casa “museo” al n.2 della rue Jules Chaplain (intorno al 1971) – dove, giovane venticinquenne, cominciavo a recarmi periodicamente con lo stato d’animo di un pellegrino alla Mecca –Naville demolì (parzialmente) uno dei miei miti dell’epoca. Mi raccontò che Ernest Mandel, prima di pubblicare il Traité d’économie marxiste (1962)- non tralasciando di segnalarmi la ben nota erroneità del titolo, che come editore ho poi eliminato nella mia edizione italiana del Trattato marxista di economia- gli aveva mandato il manoscritto per avere un suo parere. Al Naville quell’opera non era piaciuta e aveva consigliato al giovane e promettente economista belga di rinviare la stampa e di rimettere mano al voluminoso trattato, perché ne considerava erroneo l’impianto di base.
L’analisi della struttura economica delle burocrazie staliniste veniva infatti trattata a parte -mi disse Naville- non tanto come sezione specifica (il cap.15), ma come impianto categoriale generale. Presentando la formazione del valore, dei prezzi, della concentrazione di capitali, della circolazione monetaria ecc. nel contesto specifico della sola economia capitalistica, come fatto analiticamente separato da quello dell’Urss e il resto delle dittature burocratiche, Mandel invalidava -sempre secondo Naville – il valore di quelle stesse categorie, impedendo una spiegazione univoca (globale nel senso letterale del termine) di una struttura sociale che su scala mondiale da tempo era divenuta definitivamente unitaria. La chiave interpretativa di tale struttura unitaria si riassumeva nella categoria del rapporto sociale di lavoro salariale che ormai era predominante ovunque, inclusi i paesi a “socialismo di Stato” (come a volte li chiamava Naville).
Sappiamo che purtroppo Mandel non accettò quel consiglio e proseguì dritto per la sua strada tendenzialmente dualistica, adeguandosi alle pressioni di un contesto internazionale che reclamava a viva voce proprio la diffusione di quel dualismo teorico come schermo propagandistico necessario a giustificare la sopravvivenza del ben noto e apparente “dualismo politico” tra Urss e Usa, tra stalinocomunismo e capitalismo: una visione teorica deformante la realtà, per la quale stiamo ancora pagando prezzi vistosi.
L’argomentazione mi convinse e mi ripromisi di far tesoro di quella lezione di Naville che mi rimase impressa nella mente, condizionando a modo suo tutto il decorso successivo dei miei studi. Ma di ciò, giustamente, non è detto che il lettore debba essere interessato.

E’ interessante, invece, capire il senso ultimo, profondo della critica a Mandel che Naville formulò in quell’occasione (e che tra l’altro non mise mai per iscritto, per quanto mi è dato di sapere), perché in seguito, cominciando a leggere seriamente l’opera di Naville oppure traducendo in italiano (sempre con Antonella Marazzi) Les échanges socialistes (1974 –Jaca Book, 1975-) (4° vol. dell’epopea “nuovoleviathana”, apparso in realtà dopo il 5°), mi trovai in condizione di capire la sostanza profonda della strada interpretativa tracciata da quel discorso antidualistico e antitrialistico, unitaristicotalmente per eccellenza.
Chi ha poco familiarità con l’opera complessiva di Naville può forse sospettare che questa visione macrosociologica del rapporto di lavoro salariale nel processo di produzione del valore, del plusvalore e del surplus sociale su scala mondiale fosse talmente astratta da non poter cogliere la molteplicità di espressioni del reale, nel loro concreto farsi storia, ma anche vita quotidiana, esperienza personale, proiezione fantastica. Insomma, poteva anche trattarsi di una gran bella astrazione, trasmettibile solo nel formato di ideologia, perfetta nella sua estraneità rispetto al corso concreto degli eventi, buona come verità epocale, ma non utilizzabile nell’analisi empirica sociologica, politica o storico-contemporanea.
Tutto il contrario.
Naville adottò lo schema interpretativo sopracitato per descrivere (svelare)i rapporti di dominazione che scaturivano ovunque dalla condizione salariale, con maggiore o minore brutalità a seconda dei contesti politici. Gettò così le basi anche per una definizione sociologicamente accurata dei principali conflitti interstatuali dell’epoca sua, coinvolgendo in tale ricerca un ampio spettro di competenze scientifiche, che egli stesso indicò con estrema attenzione: non solo scienze sociali tradizionali (dalla demografia, all’economia sociale), ma anche la logica, le matematiche, la tecnologia bellica, l’analisi dei nuovi processi d’industrializzazione (dei servizi, dell’agricoltura, dei trasporti –marina compresa- e delle comunicazioni) in un contesto crescente di loro automazione, senza mai rinunciare agli apporti collaterali provenienti dai suoi originari interessi nella psicologia, nell’arte e nella letteratura.


Alienazione vs. non-lavoro

Non abbiamo qui lo spazio per ricostruire la lunga disamina compiuta da Naville nei confronti della concezione giovane-hegeliana che a suo tempo venne formulata per l’alienazione, cioè per il più diretto frutto del rapporto di lavoro salariale nella società a dominio capitalistico o burocratico staliniano. Per quanto ci riguarda, non condividiamo la sua posizione eccessivamente severa nei confronti delle prime definizione marxiane dell’alienazione, intesa come prodotto del rapporto di estraniazione del vivente e della sottomissione all’apparato di dominazione burocratico-statale, ancor prima che al capitale. Né ci sembra il caso di riprendere l’annosa questione della maggiore o minore validità dell’insieme di categorie di analisi sviluppate alla luce di quel concetto di alienazione dal “giovane” Marx, quello –per capirci- dei Manoscritti del 1844. Rimandiamo invece al procedimento teorico attraverso il quale Naville recupera quanto di meglio Marx aveva elaborato al riguardo negli anni della sua maturità (quindi anche ne Il Capitale) facendo scaturire l’alienazione direttamente dallo scambio tra forza-lavoro e salario: un concetto di alienazione che Naville estende dal contesto della dominazione capitalistica a quello della dominazione burocratica staliniana.
Il tutto, in un quadro di critica serrata all’itinerario storico di crescente esaltazione ideologica del lavoro da parte degli intellettuali asserviti ai vari carri di propaganda padronale (capitalistica o sovietico-staliniana), e di valorizzazione dell’altrettanto crescente disaffezione operaia nei confronti di quello stesso lavoro. Alla storica esigenza della classe o del ceto dominanti di celebrare in senso giuridico-economico-culturale la “nobiltà” (funzionalità sistemica) del lavoro, Naville contrappone la consapevolezza del lavoratore che si va via via rendendo conto che il tempo di vita reale è solo quello del non-lavoro (e nemmeno nella sua interezza vista l’intrusione crescente del capitale anche in tale ambito, grazie ad alcuni imprevedibili indotti del processo d’industrializzazione nella vita quotidiana).
Il nome di Naville può ascriversi tranquillamente fra gli studiosi marxisti ammiratori delle grandi potenzialità eversive racchiuse nella problematica del non-lavoro, l’unica vera risposta antagonistica che i non-detentori del controllo o della proprietà dei mezzi di produzione possono dare alla realtà storico-sociale dell’alienazione in un sistema fondato sul rapporto di lavoro salariale.
Non a caso l’opera di Lafargue (Il diritto alla pigrizia, 1880) occupa il posto che essa merita nel contesto della ricostruzione storica della disaffezione operaia nei confronti del lavoro (salariato o non). Naville giunge ad affermare che essa fu ispirata direttamente da Marx (Dall’alienazione …, p.496) – una posizione che ci appare assai discutibile. Ma non è un caso nemmeno il fatto che Naville si aggiunga alla lunga lista di marxisti che hanno apprezzato le idee di Charles Fourier sulla necessità che il lavoro abbia un carattere piacevole o sulla validità del sistema sociale falansteriano fondato su una divisione del lavoro armonizzata secondo l’attrazione passionale e redistribuita in serie anche nella ripartizione o nella rotazione delle mansioni (taches).
La crescita storicamente misurabile del tempo di non-lavoro nella vita del salariato, l’atteggiamento di crescente favore verso la generalizzazione del non-lavoro costituiscono per Naville tendenze socialmente positive e in quanto tali inarrestabili. Libero da condizionamenti biologici pseudo-darwiniani, l’atteggiamento di favore crescente per il non-lavoro non si può ridurre tendenzialmente a un attività di livello zero, a una non-attività. Si tratta, invece, di un’attività vera e propria, concreta e storicamente determinata, purché sia intesa come “un’attività che non ha più prezzo” (ibid.).
Si tratta, cioè, di un’attività disalienante, volta alla riconquista del diritto alla liberazione individuale, che deve necessariamente svolgersi all’esterno della schiavitù fondamentale della nostra epoca e che quindi richiede l’abolizione definitiva del rapporto salariale in tutta la sua alienante globalità.


Autogestione …

Il caposaldo irrinunciabile di tale trasformazione del salariato –da oggetto indifeso di un rapporto di scambio alienante, a soggetto consapevole delle proprie potenzialità di trasformazione sociale (individuale e collettiva)- doveva essere la prospettiva politica e sociale dell’autogestione.
A tale riguardo, la riflessione compiuta è un’acquisizione tardiva, grosso modo del periodo successivo ai grandi movimenti del 1968 (ai quali Naville dedicò un’attenzione particolare in primo luogo per la Francia e secondariamente per l’Italia). Egli stesso lo riconosce nel libro, Le temps, la technique, l’autogestion (1980, p.8). Vi sono anche interventi retrospettivi di Naville che rivendicano di aver posto in termini politici già nei primi anni ’60 la questione della democrazia diretta dei produttori sul luogo di lavoro e nella società. Ma si trattava di una problematica diversa dal principio dell’autogestione, almeno per come essa si presentò a partire dal 1970-71 in Francia e soprattutto dopo che si poté cominciare a tirare un bilancio complessivo dell’autogestione in Jugoslavia.
In quegli anni, infatti, tornò a svilupparsi un movimento favorevole all’autogestione come prospettiva politico-sociale generale –e addirittura come materia di rivendicazione sindacale da includere, secondo alcuni, nei contratti nazionali di lavoro- distinta dall’autogestione fa realizzarsi sulla base delle singole comunità di produttori, secondo la vecchia tradizione anarchica, e trasversale rispetto ai vari partiti della sinistra, vecchi e nuovi. Occorre riconoscere che, per un periodo, in quella fase relativamente “innovativa” di ripresa del movimento autogestionario svolsero un ruolo animatore e di prima fila –nonostante le loro molte ambiguità- la Cfdt e il Psu di Michel Rocard, partito del quale Naville all’epoca era membro. Nella Francia di quei primi anni ’70, la parola d’ordine dell’”autogestione” era un po’ sulla bocca di tutti, ma a Naville non andava affatto l’idea di essere confuso con la concezione riformistica e statalistica di tale prospettiva (intellettuali di area Ps, ma sul finire degli anni ’70-primi anni ’80, anche di area Pcf); né con gli utopismi gratuiti della nouvelle gauche postsessantottina o delle organizzazioni anarchiche; ma nemmeno con chi nutriva aspettative verso le posizioni di controllo operaio istituzionalizzato o verso le nazionalizzazioni dietro la veste attraente del discorso autogestionario. Lo sviluppo di un forte settore pubblico o l’ampliamento dell’industria di Stato rilanciata dal gollismo non coincidevano certamente con l’idea che Naville aveva in mente per liberare i lavoratori dalla schiavitù del rapporto salariale, vincere la battaglia contro l’alienazione e costruire la società autogestita dai produttori democraticamente associati.
Lo ribadì con estrema chiarezza nell’intervista che mi concesse ad aprile del 1980 (“La rivoluzione assente” pubblicata in Unità proletaria, n. 3-4/1981, pp. 231-5), nonché ovviamente nel libro sull’autogestione dello stesso anno, già citato, oltre che in altri interventi occasionali.
Nell’intervista con me chiarì attentamente la distinzione tra autogestione e nazionalizzazioni, soffermandosi a dimostrare l’inadeguatezza della vecchia parola d’ordine del “controllo operaio”, a fronte dei mutamenti intervenuti nella struttura tecnica e organizzativa dell’industria moderna (fece gli esempi delle telecomunicazioni, le economie di rete, l’aviazione ecc.) e dei quali non si poteva non tenere conto.
Leggendo i testi principali dedicati da Naville all’autegestione si ricava l’impressione che egli mantenesse un’ambiguità di fondo fra ciò che poteva essere realizzabile nella Francia degli anni ’70 e ’80 (quindi all’interno di un sistema capitalistico, fondato sulla proprietà pubblica e/o privata dei principali mezzi di produzione) e ciò che l’autogestione avrebbe dovuto rappresentare all’interno di una società socialista, avviata ad abolire le categorie di mercato dominanti i rapporti economici, in primo luogo il rapporto di lavoro salariale.
Ma se si lascia da parte per il momento questo nodo irrisolto, benché molto importante, occorre dire che Naville ha fatto spirare una nuova aria sulle vecchie teorie autogestionarie, micro o federative che fossero, ponendo sia il problema di una centralizzazione (dal basso verso l’alto), sia il problema della qualità e dei tempi di circolazione dell’informazione, indispensabili per fare dell’autogestione una prospettiva realistica all’interno di società industriali e fortemente integrate.
Spetta a lui il merito di aver dimostrato che l’integrazione via via crescente delle varie forme di vita sociale in ogni moderno tipo di sistema di rapporti fondati sulla divisione tra proprietari e produttori, non poteva significare che solo lo Stato fosse in grado di assicurare una gestione efficace di settori come la sanità, l’educazione, la cultura, l’organizzazione del tempo libero ecc. Soluzioni autogestionarie realizzatrici,, fondate sulla mobilitazione organizzata delle collettività lavoratrici o comunità umane direttamente coinvolte, avrebbero potuto cominciare a sostituire fin da subito il ruolo invadente, autoritario e burocratico dello stato (capitalistico o sovietico che fosse). La linea di tendenza prevalente doveva essere quella di un’autogestione globale, contrapposta alle idee di frammentazione e microrganizzazione su basi locali.
Naville non ignorava che tutto ciò non avrebbe abolito immediatamente le differenziazione tra i vari livelli della gerarchia sociale. E sapeva che così non si sarebbe posto termine ai conflitti politici e sociali, ma anzi se ne sarebbero creati di nuovi. Sua speranza era che l’autogestione potesse produrre nuove norme di comportamento nella gestione dei conflitti –un’”autogestione” anche in questo senso- affidandosi a forme via via crescenti di democrazia dal basso non solo tra le organizzazioni politiche e sindacali, ma all’interno delle organizzazioni stesse. A suo avviso, tuttavia, occorreva affidarsi in modo particolare a una crescita accelerata e senza precedenti storici dell’informazione. Questa non si sarebbe dovuta calare dall’alto (tecnocraticamente) sui nuovi modi di organizzare i rapporti sociali, ma si sarebbe dovuta integrare con essi.
Contro i monopoli del sapere e della comunicazione da parte dello Stato e delle burocrazie pubbliche. Naville riteneva che la massima libertà d’informazione fosse indispensabile, ma anche che essa fosse incompatibile con l’esercizio del potere di soffocamento in questo settore da parte del capitale privato, così come da parte delle burocrazie del “socialismo di stato”.

… e godimento

L’autogestione si può considerare in campo politico-sociale l’equivalente di ciò che in campo filosofico rappresenta l’attività non alienata, della quale si è parlato alla fine del quarto paragrafo. Se essa si mantiene assolutamente indipendente dai meccanismi sistemici (a dominanza capitalistica o burocratica-staliniana) di asservimento della struttura produttiva e dell’organizzazione del lavoro, ma anzi riesce a superarli in una forma superiore di autorganizzazione del lavoro e del tempo di non-lavoro, potrà considerarsi, secondo Naville, la futura base materiale del godimento (jouissance) generalizzato: quello disponibile per l’intera umanità, indipendentemente dalla collocazione geopolitica delle nazioni o delle singole comunità lavorative. Un godimento per il quale può valere anche il termine tedesco GenuB, per quel tanto di piacere concreto, di usufrutto o piacere consumato, che esso include.
GenuB, ci dice Naville, è il godimento inteso come soddisfazione dei bisogni dell’uomo, totalmente estraneo a logiche di compatibilità economiche, tassi d’interesse o funzionalità tecnocratiche. Un godimento in perenne conflitto per difendere gli spazi del non-lavoro dall’invadenza del mondo dei consumi (monetizzabili e portatori a loro volta di nuova alienazione). I bisogni vanno ovviamente intesi nel senso più ampio del termine e sono storicamente determinabili senza esclusioni preventive: dall’appagamento dei bisogni primari dell’individuo fino alla ricerca di nuove forme d’espressione culturale, passando per tutta la gamma della creatività umana, per la quale Naville aveva sviluppato una sensibilità particolare partecipando fin dagli esordi alla rivolta artistica del surrealismo (si veda tra l’altro, Les temps du surréel, 1977; ma anche Mémoires imparfairtes, 1987).
Naville ci dice, con una bella espressione, che il piacere va inteso “come partecipazione diretta al movimento della natura, vale a dire come libertà”. (“ comme participation direct au mouvement de la nature, c’est-à-dire comme liberté”). Non si tratta di tornare indietro a uno stato di beatitudine naturale, preindustriale e immaginifica, ma di valorizzare lo sviluppo della società, delle sue forze produttive con la ricchezza di nuovi bisogni che di lì scaturiscono.
Nel processo di riappropiazione di se stesso, l’uomo si identificherà con la soddisfazione di vecchi e nuovi bisogni (prodotti dallo stesso sviluppo delle forze produttive) solo nella misura in cui sarà soggetto consapevole di una profonda trasformazione sociale, vale a dire del rivoluzionamento delle forme sociali del lavoro. Con il tempo di lavoro ridotto al minimo indispensabile, con il tempo di non-lavoro recuperato dall’ingerenza venefica dell’alienazione capitalistica e consumistica, non sarà un problema per l’uomo liberato porre termine alla logica monetaria del vecchio scambio produttivo di plusvalore, rovesciando i termini stessi della ripartizione del plusvalore sociale. Godimento, tempo di lavoro non-alienato minimamente necessario e tempo di non lavoro libero dalle ingerenze del consumismo, consentiranno una condizione superiore di esistenza umana, cui gli individui –ricomposti con se stessi e riappropriatisi collettivamente della facoltà di determinare le proprie forme di esistenza- potranno porsi e risolvere anche un obiettivo impensabile nella società della soddisfazione degli stessi bisogni.

Tutti i bisogni si esprimeranno nella sfera della libertà, e il non-lavoro e il lavoro si trasformeranno in pura attività creatrice. La produzione non sarà più il prezzo del consumo: ambedue saranno i poli di uno stesso atto sociale e personale di creazione” (Dall’alienazione …, p.499).

Queste parole si possono considerare il manifesto riassuntivo della prospettiva societaria di Naville, una sorta di sintetico testamento che non va disgiunto dall’impegno pratico-politico, da lui svolto finché le condizioni di salute lo consentirono. Ai critici potenziali od effettivi di quelle scelte teoriche e di quegli impegni politici, Naville rispose più o meno direttamente nella conclusione dell’intervista che mi concesse nel 1980, già citata, affermando con spirito deciso e ancora incredibilmente giovanile:

Questa è l’epoca ed io sono, modestamente, come la mia epoca. E se vi sono persone o movimenti che trovano di meglio, io non chiedo altro che di poter aderire. Nel frattempo cerco, tuttavia, e cerco molto…”.


(dicembre 2008)

Le illustrazioni sono tratte da quadri del Maestro Mario Costanzo

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