Diari di Cineclub

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sabato 12 febbraio 2011


MUBARAK IN FUGA, ANCHE SE LA RIVOLUZIONE NON HA (ANCORA) VINTO


                                 di Antonio Moscato


Logica l’esultanza di tutti noi per la fuga di un altro tiranno, che fa passare in secondo piano la preoccupazione per la fiducia riposta nell’esercito dalle masse in rivolta. In ogni caso questa notte tremano altri tiranni, molti altri servi fedeli degli Stati Uniti sanno ora che potranno essere scaricati brutalmente. Grottesco l’atteggiamento di Berlusconi e Frattini, vecchi compari dei tiranni, che li avevano elogiati fino a pochi giorni fa. Straordinario l’incoraggiamento di questa vicenda ai tanti altri oppressi, nell’area e nel mondo.
La rivoluzione però non ha (ancora) vinto, come non ha ancora vinto in Tunisia, e non è automatico che vinca. Chi conosce la dinamica delle poche grandi rivoluzioni, come quella russa del 1917 o quella tedesca del 1918-1919, sa che non bisogna sgomentarsi per le momentanee battute d’arresto, i risultati elettorali contraddittori come quelli del giugno 1917 a Mosca e Pietrogrado, ma nemmeno illudersi che un milione di persone in piazza sia automaticamente sufficiente, in assenza di una direzione rivoluzionaria capace e riconosciuta: il gennaio 1919 a Berlino ce lo ricorda.
Ma il grande sconfitto è comunque il fatalismo, è la convinzione che non ci sia niente da fare. Chi lo ripeteva ogni momento, anche e soprattutto tra i resti della sinistra, che ne è stata distrutta, non sa neppure come spiegarsi quel che è successo, quel che sta succedendo. E non riesce a capire che la rivoluzione non è facile, né può essere programmata a tavolino, ma è come l’araba fenice, ricompare per una sua logica profonda, ed è contagiosa. (a.m.11/2/11)

P.S. Dopo aver scritto, a caldo, questa brevissima nota, ho letto il commento più articolato ma convergente nel giudizio di Salvatore Cannavò su http://www.ilmegafonoquotidiano.it/e lo aggiungo volentieri (a.m. 12/2/11)




        LA RIVOLUZIONE E' POSSIBILE
                                 di Salvatore Cannavò

Mubarak si è dimesso sotto la spinta della sollevazione popolare. Non sappiamo cosa succederà ora, se la delusione prenderà il posto della speranza. Ma Il Cairo mostra qual è la strada del cambiamento
Centinaia di migliaia di persone festeggiano a piazza Tahrir, al Cairo, dopo l'annuncio delle dimissioni di Hosni Mubarak. Se ieri sera il raìs aveva cercato di strappare un altro lembo di potere, la rivolta spontanea e determinata, lucida e sostanzialmente pacifica di milioni di persone lo ha costretto alla resa, a fuggire via, a gettare la spugna.

UN ESITO INCERTO. Non sappiamo cosa succederà ora in Egitto, quanto le forze del vecchio regime riusciranno a resistere e a restaurare il proprio potere, magari con cambiamenti di facciata. Ma, al di là degli esiti, la sollevazione popolare ha riproposto all'attenzione del mondo intero il tema del cambiamento come espressione di un'iniziativa di massa. Gli egiziani ci dicono che la rivoluzione è possibile.
Il cambiamento non è frutto di giochi di palazzo, di complicati origami politici, di mosse e contromosse, schemi geometrici ma cammina sulle gambe popolari, sulla mobilitazione di massa. Le “masse” tornano in campo e prendono parola, nel modo più semplice e diretto, riproducendo, probabilmente, antichi errori e dovendo subire altrettante delusioni. Ma la strada è tracciata e questa notizia costituisce una boccata d'ossigeno anche per noi che assistiamo a piccoli fenomeni di “risveglio sociale” pur se informi e poco incisivi.
Certo, l'Italia non è l'Egitto e nonostante la ridicola macchietta sulla presunta nipote neanche Berlusconi è Mubarak. Non c'è l'esercito a puntellare il "regime" italiano ma le televisioni e la corte di palazzo. Eppure, la strada indicata dalla sponda sud del Mediterraneo ha una valenza generale, indica una modalità. E ci dice che, davvero, se non ci riprendiamo il nostro protagonismo, la nostra volontà di cambiamento non andremo da nessuna parte.

LA CRISI ITALIANA. Assistiamo a una verticale “decadenza” delle classi dirigenti di questo paese, incapaci di trovare il bandolo della matassa e della governabilità. Il governo Berlusconi è in evidente crisi di consenso e legittimità ma non sgombra il campo e si fa forte della maggioranza parlamentare – peraltro acquistata in contanti – di uno zoccolo duro di elettorato che resiste, di un ruolo padronale del proprio leader che nessuno osa mettere in discussione. Il centrosinistra, le opposizioni, offrono uno spettacolo pietoso fatto di formule algebriche e di schemi tattici privi di contenuti, di idee, di proposte, quali che siano. La “borghesia” italiana balbetta e si contorce in uno scontro interno per la sopravvivenza sul mercato globale – cos'è se non questa la strategia di Marchionne e il suo scontro con la traballante Marcegaglia? - la Chiesa offre, ancora una volta,la prova della sua connaturata ipocrisia, e la sinistra si divide tra essere “ancella del Pd” o ruota di scorta non necessaria. Resta in campo l'esempio offerto dalla Fiom e dagli studenti che riecheggia quello che proviene dall'altra sponda del Mediterraneo: il protagonismo diretto, la democrazia di base, la sollevazione popolare come mezzo, e anche come contenuto, di una trasformazione sociale reale e durevole.

UN'INDICAZIONE POSITIVA. Perché, anche se appare una prospettiva lontana e irrealizzabile, è questa la soluzione di cui abbiamo bisogno. La destrutturazione dell'agenda politica imposta da venti anni di berlusconismo e antiberlusconismo, narrazioni contrapposte di un'unica visione economica e sociale; il rimaneggiamento dell'ordine del discorso costituito, il ripristino di bisogni inespressi e demonizzati. Il bisogno del lavoro, del reddito, della casa, di un ambiente sano, di una vita degna di essere vissuta. Tutto questo non ha futuro nel quadro politico esistente, con le caste e le cricche che si spartiscono il potere; nemmeno l'auspicabile uscita di scena di Berlusconi offrirebbe speranze in tal senso. Solo un rivolgimento profondo potrebbe ridare fiato a un discorso sul futuro. Come disse in una celebre serata televisiva il compianto Mario Monicelli, in Italia per cambiare davvero, “ci vorrebbe una rivoluzione”. Come in Egitto.

12 febbraio 2011

dal sito http://antoniomoscato.altervista.org/

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